Cultura e Spettacoli

Gli ultimi 500 metri della "Voce" che ha cantato l'epica dello sport italiano

È morto a 75 anni il cronista delle storiche vittorie azzurre, su tutte quella dei fratelli Abbagnale. Autoironico e senza fronzoli sapeva farsi intendere e amare da chiunque

Gli ultimi 500 metri della "Voce" che ha cantato l'epica dello sport italiano

I campioni muoiono all'alba, i campioni del giornalismo sportivo se ne vanno il giorno in cui gioca la nazionale di calcio. Così è stato per Giampiero Galeazzi che, in fondo, è stato un buon amico e una brava persona, in fondo ha saputo regalare frammenti di pace, quasi di liberazione, alla fine delle sue cronache sulfuree. Sono stati i suoi ultimi cinquecento metri. La voce di nuovo arrugginita, non più per la pazza gioia di una vittoria ma per la vita che si stava avvicinando al traguardo. L'ultimo. Gli occhi non avevano più luce, il corpo aveva smarrito ogni dimensione, la carrozzina, sulla quale ha vissuto la fine, il segno di una resa alla quale la malattia, il diabete, lo aveva trascinato, nel buio e nel silenzio. Ha concluso la sua gara lunga, prima bella, poi triste e solitaria, Giampiero Galeazzi di anni settantacinque, una fetta grande dello sport e del giornalismo raccontato alla radio e in televisione, atleta e personaggio, campione e caricatura, collega e amico, romano di quelli che non hai mai voglia di lasciare, caciarone mai volgare, sodale di notti e viaggi mille, pensando alla vita dolce del nostro mestiere.

Gilberto Evangelisti lo volle in radio e ne intuì le doti pantagrueliche. Aveva competenza e passione, la scuola era quella del campo, la pratica della canoa e del canottaggio, per eredità paterna (suo padre aveva vinto l'europeo del due senza nel '32), gli era servita per alleviare la malformazione, al braccio e alla mano, dovuta a un incidente, il Tevere era il suo oceano, era un fiumarolo di origini padane, era diventato campione del mondo junior e poi le qualificazioni ai Giochi del 68 in Messico, cinque titoli assoluti, Giampiero si sentiva uno stecchino ma su quel metro e novantuno si portava addosso già novanta chili. Mai l'ho visto strafocare, però sì divertirsi con il cibo, mai l'ho sentito starnazzare come certi sodali contemporanei oppure sentenziare di tattica e tecnica, sapeva scaldarsi e scaldare, seguivi le sue telecronache come trovandoti a spingere con i remi e a sbuffare, a sudare, a soffrire, a battere da fondo campo a correre verso rete a provare il rovescio, poi, nelle interviste, il microfono era quasi un optional, un asterisco, scompariva durante il dialogo fresco, genuino, la comunicazione immediata, di pelle, mai costruita, poteva trattarsi di Gianni Agnelli o di Maradona, di Platini o Paolo Rossi, di Borg o Becker e gli Abbagnale erano una persona sola. In coppia con Panatta batteva il doppio di saggezza tennistica ma da nenia di cinema polacco Tommasi-Clerici, quando la Lazio, la sua Lazio, vinse lo scudetto, mollò la diretta e la tribunetta del Foro Italico per correre a fare festa in campo all'Olimpico, in mezzo al popolo biancazzurro.

Non aveva nemici se non in casa Rai dove il successo plateale con lo spettacolo di Domenica In, accanto a Mara Venier, aveva provocato gelosie e invidie e boicottaggi nel rettilario di redazione. Gli avevano tolto scrivania e telefono, come fosse un appestato con la colpa di avere macchiato la professione mentre altri godevano di sponsor occulti e stavano e stanno nascosti nel canneto. Giampiero ha avuto una virtù esclusiva: tra tanti papaveri e papere, non si è mai preso sul serio, pur onorando il lavoro con un impegno professionale esemplare, aveva imparato a remare in tutti i sensi, usava l'ironia anche per deridere se stesso, le proprie gaffe lessicali («la bomba al nepal»), nonostante la scuola di lusso, San Giuseppe de Merode al sito di piazza di Spagna e Villa Flaminia, in totale docenza cattolica, eppoi la laurea in Economia e commercio, specializzazione in Statistica e tesi su Metodo statistico applicato alla disciplina sportiva, roba da traslocarlo negli uffici Fiat di Torino dai quali scappò per saudade del Tevere, del circolo Canottieri e del sole.

Abbandonato il lavoro delle scrivanie e macchine per scrivere, Giampiero si ritrovò per caso nella redazione Rai di Roma, dove lo portò il suo collega di doppio Renato Venturini. Gilberto Evangelisti, che era il capo di quella truppa, quando si vide di fronte quel massiccio pupone domandò: «Ah Renà, ma chi è sto bisteccone?». La favola ha retto per tutta la carriera.

Giampiero è stato un teatrante congenito, sarebbe stato attore protagonista di un qualunque film di Vanzina ma mai guitto o buffone come qualche malalingua, tra di noi, anche ultimamente, lo aveva ribattezzato per poi evitarlo o addirittura disprezzarlo, così spingendolo alla solitudine compatita. Giampiero ha saputo farsi intendere e amare da atleti di ogni etnia ricorrendo a un inglese approssimativo, a un francese precario, a uno spagnolo improvvisato, questo lo rendeva immediatamente umano e simpatico, grazie a quel monumento personale che gli permetteva di sovrastare chiunque. Ha vissuto l'epoca migliore del giornalismo non soltanto sportivo, Martellini, De Zan, Ameri, Ciotti, Viola, Brera, Arpino, Soldati, cronisti e narratori di discipline e storie varie, per indole e scelta non è stato un narratore aulico ma rispettava, per educazione, chi questa arte rara possedeva. La facile e superficiale letteratura lo ricorda per le battute alla Santi Bailor Nando Mericoni.

Gli ultimi cinquecento metri restano la sua notte dei sogni, svaniti in una mattina di novembre, appena prima che i campioni d'Europa scendessero in campo a Roma.

Un altro pezzo della nostra vita scivola via per farci sentire ancora più randagi.

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