Cultura e Spettacoli

Per un'esistenza da collezione ci vuole un "Muggenheim"

Giampiero Mughini racconta, con vena malinconica, "quel che resta di una vita", fra migliaia di oggetti

Per un'esistenza da collezione ci vuole un "Muggenheim"

Il Muggenheim, di Giampiero Mughini (Bompiani, pagg. 269, euro 20), vale già soltanto per il titolo, un'invenzione d'autore anche se non dell'autore, perché frutto dell'estro di Pablo Echaurren, pittore di talento e anche lui, come Mughini, un appassionato del Novecento modernista e modernizzatore. Quel che resta di una vita è il sottotitolo di questo che è forse il più malinconico nonché il più intimo dei libri di Mughini, come del resto viene fuori da una constatazione che gli si presenta alla mente all'improvviso, e proprio per questo ancor più lacerante: «È possibile che gli oggetti muti come sono, e seppure siano delle opere d'arte, acquistino una tale importanza nella condizione sentimentale di un individuo? Certo che è possibile, dato che gli oggetti d'arte non ti tradiscono e invece gli amici e le amiche, anche i più cari, eccome se lo fanno. Certo che è possibile, se nelle tue giornate scompaiono le presenze umane d'un tempo e si allentano le affinità generazionali che prima esistevano e davano calore alla tua vita reale. Certo che è possibile, se i percorsi di ciascuno di quelli che ti erano familiari vanno per strade diverse dalle tue - com'è del tutto naturale - e non hai più nulla in comune con le predilezioni di chi sta irrompendo nelle prime file del tuo lavoro oltre che della cronaca pubblica». Il risultato finale è il ritrovarsi da un lato «a coltivare il gusto della solitudine» e dall'altro a fare della propria abitazione «la mia tana e la mia fortezza». Non tanto quindi una casa-museo quale poteva essere la meravigliosa abitazione di gusto neoclassico di Mario Praz, raffinata quanto estenuata ricerca di una particolare idea del bello nei suoi più minimi dettagli, e neppure quel monumento funebre e un po' funereo nel suo esservisi seppellito da vivo, che è il Vittoriale di d'Annunzio... Il paragone forse più pertinente, pur nella differenza più totale, è in quella «casa come me» che è la malapartiana costruzione di Punta Massullo a Capri, forse la villa-fortezza più inquietante e più pagana del nostro Novecento, essenziale nelle linee e negli arredi quanto quella di Mughini è complessa e, va da sé, coloratissima.

Chi è abituato al Mughini televisivo troverà probabilmente spiazzante questo trittico tana-fortezza-solitudine, ma Mughini è uno di quei casi tipici di intellettuali che vivono il progresso, ovvero la civiltà della tecnica, in modo non conflittuale, e però irrisolto, un coitus interruptus più che un rapporto completo. Fanno la televisione, ma non la guardano o la guardano poco, usano il computer, ma come fosse una macchina per scrivere, non twittano, non facebookano, non emoticano, ma non disprezzano né il consumismo né il messaggio pubblicitario... Sono perciò visti con fastidio dai teorici dell'eccesso catodico, il trash televisivo come essenza stessa della televisione, e con sospetto dai luddisti antitecnologici, per i quali ogni apparizione in video è un delitto. A ciò va aggiunto il fatto che come tutti gli analogici arrivati al digitale non per scelta, ma per costrizione, Mughini resta un uomo di carta in un'epoca che della carta si illude di potere fare a meno. Giornalisticamente parlando, ha fatto a tempo a viverne l'ultima stagione, dagli anni Sessanta alla fine del secolo scorso, quando scrivere su quotidiani e riviste era una professione e non una riserva indiana, e con la propria penna ci si poteva decorosamente campare e non avere la sensazione di andar chiedendo l'elemosina. Se a ciò si aggiunge che è l'autore di una ventina di libri, saggi, biografie, memorialistica, mai corrivi, mai aventi a che fare con l'effimero e con la panna montata dell'instant book autoreferenziale, e che però non hanno mai fatto fallire l'editore che glieli pubblicava, si capisce perché poi uno si chiude in casa e se ne sta con sé stesso e le sue passioni.

Siciliano di nascita, ma trapiantato a Roma da più di mezzo secolo, Mughini ha eretto il suo Muggenheim una ventina d'anni fa, nel quartiere di Monteverde. C'era stato per la verità un Muggenheim più piccolo, fra Campo de' Fiori e Ponte Sisto, abbandonato proprio perché il collezionismo mughiniano fra libri, oggetti, mobili, memorabilia eccetera ne aveva reso pressoché impossibile l'abitarvi. Quello attuale consta di 500 metri quadri più terrazze, il piano terra che ospita la collezione di design accumulata in trent'anni di ricerche, lo studio-biblioteca al primo piano, cinque stanze, fra cui la cosiddetta «stanza anni Cinquanta», che raccolgono libri, poster, plaquettes, dischi che arrivano sino agli anni Ottanta, l'abitazione vera e propria al secondo, con una stanza dove c'è sì il televisore, ma soprattutto Brigitte Bardot, altra icona mughiniana, fotograficamente ritratta a spron battuto.

Per chi, come il sottoscritto, collezionista non è, riesce difficile non tanto dare conto del valore di ciò che Mughini ha raccolto, ma dei criteri stessi con cui può muoversi la passione di un collezionista. C'è per esempio un interesse vivissimo per il rock anni Settanta, ma quello di Bologna e dintorni, che poi fa il paio con la grafica più o meno movimentista dell'epoca, e quindi gli Skiantos e Bonvi, Andrea Pazienza e Frigidaire e insomma quel conato libertario che allora sostituì la classe operaia con gli indiani metropolitani e il libretto rosso con lo spinello e l'eroina. Più che una rivoluzione, fu un'ecatombe giovanile di talenti troppo presto bruciati.

Allo stesso modo, è difficile capire quanto per esempio l'interesse per Andy Warhol, la sua vita, le sue manie, le sue ossessioni, sia il frutto di un qualcosa inerente la sua fisionomia d'artista, cosa che a suo modo e nel suo genere Warhol fu, o abbia invece più a che fare con i suoi prodotti-feticci, prime edizioni di vinili, libri, cataloghi firmati, ovvero ancora e sempre con quella smania di possedere tutto il possibile intorno a un unico soggetto e per il solo fatto di essere di quell'unico soggetto.

Poesia visiva, fumetto di qualità, arte multidisciplinare, fotografie, volantini, poster, carta come opera e carta come documentazione. È difficile, lo ripeto per l'ultima volta, per un profano aggirarsi idealmente all'interno di questo museo dove il fantasma del Dams di Bologna, ovvero il situazionismo in salsa petroniana e post sessantottesca, va a braccetto con Metropolis e l'operaismo armato, dove l'Internazionale lettrista fine anni Quaranta costeggia l'Histoire d'O di Pauline Réage anni Sessanta e l'erotismo sado-maso del Robbe-Grillet anni Ottanta... E naturalmente si può capire perché ci sia Crepax e non Pratt, Valentina e non Corto Maltese, a indicare come nel collezionare ci siano sempre delle coordinate esistenziali.

A me che sono per una vita in bianco e nero, anche al cinema, quella colorata di Mughini dà un po' le vertigini e incute un religioso timore. Soprattutto nel design, e ferma restando l'ammirazione per giganti come Ponti, Mari, Albini, Mendini, Sottsass, ci sono pezzi tanto strepitosi quanto inquietanti, per esempio il posa cenere in ceramica di Gaetano Pesce a forma di una mano forata da cui esce il sangue, o il vaso in gres di Guido Gambone da Mughini stesso denominato «lo sgorbio» in quanto non ha né funzione né forma definita.

Si sa che nella vita le passioni possono venire a noia e/o consumarsi, e questo vale anche per ciò che si colleziona. Mughini ha avuto una fra le più belle se non la più bella collezione di edizioni futuriste, libri, riviste, volantini, un insieme di circa 800 voci, che quando andarono in vendita formarono un meraviglioso catalogo di arte italiana. L'ha sostituita con quella per i libri d'artista, di cui fanno anche parte le riviste di cultura e si sa che sotto questo profilo il Novecento, e in specie il nostro Novecento, ha svolto un ruolo di primo piano, dal Leonardo alla Voce, da Omnibus al Politecnico. Mughini, naturalmente, ce l'ha tutte, in edizioni complete, compresa anche Quaderni rossi, sei numeri in tutto, che negli anni Sessanta fu un po' la bibbia della sinistra studentesca e non solo. Molti anni dopo, Mughini telefonò a uno dei suoi fondatori per un'intervista e se la sentì negare in quanto «giornalista borghese». Fossi stato in lui, avrei buttato via l'intera raccolta, perché anche la cretinaggine ha i suoi limiti.

Ma io sono un selvaggio e non un collezionista.

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