Cultura e Spettacoli

Gli uomini accecati da sé hanno cacciato gli dèi

Walter Otto spiega come la civiltà greca fosse legata al suo pantheon, che formava un popolo

Gli uomini accecati da sé hanno cacciato gli dèi

Ci si chiede con grande interesse come l'uomo sia giunto a incontrare Dio, e invece bisognerebbe chiedersi con un po' di umiltà come egli abbia potuto allontanarsene. Sembra così assurda la convinzione di Goethe che riteneva incommensurabile «quell'ampiezza della divinità che ci circonda, così potente da aver illuminato tutta la sua opera, come cometa che dilegua, ci risplende innanzi, senza fine congiungendo luce alla sua luce»? (Epilog zu Schillers Glocke). Sono parole riprese da Walter F. Otto nel suo volume Teofania (pubblicato nel 1956, ora in traduzione italiana a cura di Giampiero Moretti, Adelphi, pagg. 184, euro 15).

«L'intento vero e proprio di questo libro» scrive Walter Otto, «consiste nell'avvicinarsi alla comprensione della forma del divino quale si è rivelata ai greci, e in tal modo mettere in luce lo spirito della religione greca». In modo molto opportuno, Giampiero Moretti nella sua colta prefazione osserva come tutto il lavoro di Walter Otto abbia per tema cruciale la ricerca dell'essenza della religione: «Lo spazio-tempo della religione greca assurge a paradigma dell'ascesa dell'uomo verso il divino e verso la storia».

Nelle pagine di Teofania, l'interpretazione del mito diventa una critica puntuale al modo in cui si è sviluppata una modernità che ha perso, scientemente, il senso e l'esperienza del divino nella vita. Ammiriamo le grandi opere dei greci, dall'architettura alla scultura alla poesia, ci impegniamo con estenuante attenzione al loro pensiero filosofico, studiamo nelle scuole la loro civiltà, consapevoli che essa ha fondato lo spirito europeo, eppure, osserva Walter Otto, oggi si ritiene che quegli stessi dei, il cui essere è testimoniato da Omero, Pindaro, Eschilo, Fidia, Prassitele... non avrebbero più nulla da dirci. Ma è la loro parola a non essere più in grado di parlare o siamo noi che l'abbiamo resa muta, non volendo più ascoltarla? Dov'è l'errore, in loro o in noi?

In poche pagine introduttive di una chiarezza esemplare, Otto esamina le interpretazioni del mito, susseguitesi dal XVIII secolo, che hanno di volta in volta profanato il mondo divino, considerandolo una costruzione prodotta da un pensiero primitivo, da errori propri di una elementare e inadeguata conoscenza umana. Ecco allora la sua critica alle interpretazioni animiste, magiche, evoluzioniste, antropomorfiche e, in particolare, a quelle della «psicologia del profondo». Soprattutto a queste ultime dedica qualche considerazione in più, perché sono state proprio esse a rappresentare nel nostro tempo «il percorso più fuorviante. Questo tipo di psicologia, infatti, asseconda nella maniera più nefasta il fatale narcisismo dell'uomo moderno», che preoccupandosi della sua scienza e tecnica «perde completamente la grandezza del mondo per prendersi cura esclusivamente di se stesso». Il mito, così asservito alle interpretazioni di piccole vicende personali, perde la possibilità di farci spalancare lo sguardo sull'essere delle cose, divenendo complice del soggettivismo moderno, vera malattia mortale del nostro tempo che apre le porte al nichilismo.

Il divino è apparso in forme diverse nelle differenti storie dell'umanità; anche i greci hanno avuto la loro esperienza di Dio, e se noi ancora oggi apprezziamo le loro opere, diventa essenziale chiederci in che modo il divino si sia manifestato a loro, perché è proprio quel divino che continua a parlarci attraverso le loro opere.

Otto cita ancora Goethe che, nel suo Canto del viandante nella tempesta, suggerisce come soltanto la presenza di Dio possa conferire grandezza sublime alla poesia, «freddo altrimenti /il suo sguardo regale / scivolerà su te». La teofania è l'autorivelarsi del divino all'uomo. I greci hanno sperimentato e vissuto la presenza del divino attraverso una figura particolare, la Musa, che con il suo stesso nome, unico nel rimanere invariato in tutte le lingue europee, testimonia la costante presenza della forza creativa delle opere dei greci nella nostra modernità. La Musa è la divinità del dire nel modo più alto: generalmente si traduce il termine «mythos» con «racconto», ma più corretto - osserva Otto - sarebbe «parola», perché la parola definisce non tanto il nome di ciò che è pensato, ma di ciò che è, della sua verità ontologica. Nel canto delle Muse risuona la verità del mondo attraverso la bellezza delle opere, quella bellezza che non si riduce ad essere la perfezione della forma che rende umano il divino, così come vogliono le interpretazioni scientiste demitizzanti, ma che trasforma l'uomo in essere divino. Una bellezza che nella poesia e nell'arte libera gli uomini dalla gabbia del loro ego, accomunando le loro vite in un solo popolo in grado di sollevare lo sguardo verso l'infinita grandezza del mondo. Un popolo unito dalla potenza divina che attraversa la sua storia: con lungimiranza Walter Otto è stato un precursore dei tempi.

Ci sono ancor popoli, oggi, nella nostra storia occidentale? Ci sono soltanto individui: predomina e viene onorata la vita delle persone, della gente, che non è popolo. C'è ancora un popolo rimasto a difendere lo spirito originario della civiltà occidentale?

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