E adesso rivalutiamo il Paolo Ruffini sommerso, pur giustamente, di critiche per aver dato della «topa meravigliosa» a Sophia Loren, durante i David 2014. La sua fu certamente una penosa gaffe, ma nulla in confronto al tremendo pasticcio, in mondovisione, avvenuto l'altra sera, a Los Angeles, con la statuetta del Miglior film, prima assegnata e poi tolta, a La La Land, per essere consegnata a Moonlight. Una situazione imbarazzante che merita due osservazioni. La prima, più scherzosa: è come se il dio del cinema avesse voluto metterci lo zampino, nello scambio di buste, per premiare, seppur per tre minuti, La La Land, la pellicola nettamente più meritevole. La seconda, più di cronaca: lo sfratto, dal palco dei vincitori, del film più «white» in concorso, ad opera di quello più «black», riassume perfettamente un'edizione all'insegna del mea culpa hollywoodiano. L'anno scorso, c'era stata polemica per gli oscarsowhite; occorreva rimediare. E così, grazie anche al voto dei 638 nuovi membri (dei quali, il 41% not white) ecco i premi per Mahershala Alì (per Moonlight, primo musulmano a vincere la statuetta) e Viola Davis (meritatissimo, per Fences), entrambi vincitori come attori non protagonisti. A questi, aggiungeteci il documentario O.J.: Made in America (con tanti saluti a Rosi) e, soprattutto, il trionfo inaspettato di Moonlight (ha vinto anche per la Sceneggiatura non originale) e avrete l'affermazione del «Black Power». Che tutto questo sia capitato a poche settimane dall'avvicendamento di Obama con Trump non sembra causale. Moonlight è il film più antitrumpiano tra quelli in gara. Per chi non lo avesse visto (in Italia tanti, dato l'incasso misero di appena 313mila euro), la pellicola racconta le tre età di un nero, in un sobborgo di Miami, alle prese con machismo, bullismo, droga, emarginazione, famiglie allargate, che deve nascondere, per paura, il suo essere gay. E il premio attribuito, come Film staniero, all'iraniano Il cliente (il tedesco Toni Erdmann sembrava superiore), con tanto di polemica assenza del regista Faradi, fa pensar male, anche se la pellicola era tra le più interessanti in concorso. Del resto, ci si aspettava che la serata più attesa dal mondo del cinema si sarebbe trasformata in un tormentone anti Trump. Hollywood ha fatto, però, una cosa ancora più sottile. Ha liquidato con poche battute il suo odio verso il presidente Usa, pur eletto democraticamente, mandando, attraverso la scelta dei premiati, un messaggio ben preciso: «Noi siamo l'enclave della resistenza Liberal». Una volta si protestava andando davanti alla Casa Bianca. Ora lo si fa esibendo orgogliosamente fiocchetti azzurri contro la politica di Trump. La La Land ha vinto sei Oscar, tra i quali quello per la miglior regia, andato meritatamente a Damien Chazelle e alla divina Emma Stone come attrice protagonista. Manchester By The Sea, gran bel film, si è portato a casa l'attore protagonista (strepitoso Casey Affleck) e sceneggiatura originale. L'Italia sale sul palco grazie al miglior make-up di Suicide Squad per merito di Bertolazzi e Gregorini.
Per il resto da segnalare, tra i premi tecnici, doppia statuetta (Montaggio e Sonoro) a Hacksaw Ridge di Mel Gibson, che meritava premi ben più nobili, esattamente come il Sully (praticamente ignorato nelle nomination) di Clint Eastwood, non a caso artista pro Trump. La «pussy generation» la trionferà.
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