Cultura e Spettacoli

"Vi svelo il caso Mitford le sorelle in giallo"

La scrittrice inglese, al quinto romanzo della serie, racconta il successo delle sue "crime story" d'antan

"Vi svelo il caso Mitford le sorelle in giallo"

Ci sono le simpatie per Hitler di Unity Mitford, che quando c'è occasione cena con il Führer e quelle di Diana Mitford per Mosley, il capo dei fascisti britannici; ci sono i cannoni a salve del 1937 e la guerra civile spagnola; ma ci sono anche le simpatie comuniste di Jessica Mitford, detta Decca, che alla faccia dei nobili privilegi familiari, si vota al comunismo, anche se qualcuno sostiene che il suo legame più stretto mai avuto con i rivoluzionari sia un ritratto di Trotzkij appeso al muro. C'è tutto questo e altro ancora in Il caso della sorella scomparsa (Neri Pozza, pagg. 368, euro 18; trad. di Francesca Cosi e Alessandra Repossi), ultimo romanzo della serie «I delitti Miford», i gialli ambientati negli anni Venti e Trenta che Jessica Fellowes nipote del celeberrimo barone Julian, sceneggiatore e autore tra l'altro di Gosford Park e Dowton Abbey - ha iniziato a pubblicare cinque volumi fa. E sembra un altro giro di giostra delle britanniche sorelle Mitford - le «Kardashian di un secolo fa», come qualcuno le ha definite - finché la ribelle Decca votata all'ideale non scompare e le vie dell'intrigo mostrano infiniti intrecci a Louisa, ex bambinaia dei Mitford, e Guy, suo marito ex poliziotto, che avviano le indagini.

Come è nata questa serie, tutta insieme o un passo alla volta?

«Il concept originale una serie di romanzi crime vintage basato sulle vite delle sorelle Mitford è del mio editore. Io mi sono subito resa conto del potenziale: sei volumi, ognuno basato su una sorella diversa, in modo da mettere in luce ciò che rappresentavano per l'epoca. Il che mi avrebbe dato la possibilità di esplorare politica, moda, cultura. Capii anche subito però che le Mitford, per quanto affascinanti, non erano così facili da amare. Mi serviva qualcuno che risultasse più simpatico di loro. E sono nati Louisa e Guy».

Qual è il cuore della saga? La storia, la tradizione, la nazione, il delitto o forse le donne?

«Direi tutte queste cose. Ma la mia fascinazione principale rimane quella per la storia, in particolare quella tra le due guerre e come si connette alla contemporaneità. Romanzo dopo romanzo mi rendevo conto che ciò che le Mitford vissero negli anni Venti e Trenta è molto simile a ciò che viviamo oggi e volevo che anche i lettori lo sentissero: per l'ultimo volume, ambientato nel 1941, mentre scrivevo di Louisa che dorme in un rifugio sotterraneo ho acceso la radio e ho sentito qualcuno descrivere la stessa esperienza, a Kiev».

Quindi anche il paragone con le Kardashian è realistico?

«Le Mitford erano una vera celebrità, all'epoca. Nelle loro differenze, erano tutte belle, aristocratiche, di rilievo. Ma appartenevano anche del tutto a quell'epoca. Penso che la somiglianza con la Kardashian stia nel fatto che ogni famiglia rappresenta politica e cultura dell'epoca in cui agisce. Quel che ammiro nelle Mitford è la loro capacità di mostrarsi per quel che sono davvero: pioniere della determinazione, nel deludere le aspettative e dare voce piena ai propri credo e desideri. Non vorrei una vita come quella delle Kardashian, ma credo che abbiano preso l'esistenza per le corna e in questo non posso che ammirarle».

C'è tanta atmosfera aristocratica nella serie. Come si combina con l'oggi?

«Di sicuro l'idea che si nasca con il diritto a governare credo sia sparita. Ma i legami con quei valori attraverso i titoli, le proprietà, l'arte, gli oggetti del passato sono così tangibili che non credo vi si possa sfuggire».

Come mai proprio gli anni Venti e Trenta?

«Quando Julian ha scritto Downton Abbey, mi sono occupata dei libri sul making of e le fonti di ispirazione. Mi ci sono voluti cinque anni di ricerche e, quando ho finito, avrei voluto saperne ancora di più. O forse l'origine di questa passione sta nei miei discorsi con zio Julian sulle storie di famiglia o nei romanzi degli autori che amo: Evelyn Waugh, Scott Fitzgerald, Graham Greene, Somerset Maugham, Dorothy Parker, Anita Loos».

A proposito di suo zio, come scrittori avete qualcosa in comune?

«Quando ero bambina mi portava in vacanza con i suoi figli e parlavamo molto, condividevamo gli stessi interessi. Siamo entrambi molto ambiziosi, ma è Julian che mi ha insegnato a sfruttare ogni opportunità al massimo, a riconoscere le porte aperte della vita. Lui è forse più politico di me, ma abbiamo in comune un grande senso dell'umorismo e quando riusciamo a passare del tempo insieme, ci divertiamo davvero».

Ha mai pensato alla serie di volume sulle Mitford come «femminista»?

«Le Mitford erano femministe. Non capivano perché le donne non potessero avere un'educazione. Credevano nel diritto di voto. E reagirono alle pressioni sociali. Quando il matrimonio di Nancy fallì e lei non poté avere figli, si trasferì a Parigi e visse la vita che voleva, scrivendo romanzi e indossando abiti meravigliosi. E Pamela alla fine della sua vita trovò l'amore in un italiano, con cui felicemente non si sposò. Ognuna di loro rifiutò di farsi ingabbiare in un ruolo o in una situazione.

Questo è il femminismo, a mio parere».

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