Si intitola Atlanta e si è imposta come migliore serie comedy agli ultimi Golden Globe. Definirla commedia però forse non è esatto. È uno dei pochi casi in cui serve un anglismo: ovvero dramedy (quel genere che mischia senza soluzione di continuità il serio e il faceto). Infatti la fiction (ideata da Donald Glover e che in Italia andrà in onda su Fox da oggi) mette in scena in dieci episodi (venti minuti ciascuno), in modo spregiudicato, le disavventure di una comunità nera sospesa tra il sogno del grande successo, i guai del melting pot.
La storia è quella di Earn (Donald Glover), ragazzo intelligente che non riesce però a sfondare, che fa di tutto per diventare l'agente discografico del cugino Alfred (Brian Tyree Henry). Il cugino infatti -nonostante una eccessiva passione per le pistole e gli strambi amici, come lo strafatto Darius- sembra essere sul punto di esplodere come cantante rap, sotto lo pseudonimo di Paper Boi. Insomma, la musica di Paper boi potrebbe essere per Earn l'unico modo di far fronte al suo fallimento, al rischio di perdere la sua compagna Van e la figlia che ha con lei.
Ne esce un racconto, corale, della cultura nera piuttosto scanzonato e che non si nasconde dietro il dito del politicamente corretto (almeno per gli standard italiani). Si passa facilmente dall'autoironia sulla cultura rap alla riflessione sulle periferie ghetto o sulla violenza della polizia. Mica male anche il racconto delle stecche che bisogna pagare per farsi trasmettere una canzone in radio... Glover, sceneggiatore, attore (ha vinto anche il golden globe come protagonista), produttore, riesce a portare sullo schermo e rendere percepibile, anche a chi non vive la cultura afroamericana, un mood, delle sensazioni. Il senso di essere incastrati in un mondo dove, parola di rapper: «noi umani siamo sempre a un passo dalla rovina». E allo stesso tempo a un passo dal venir ingoiati da uno star sistem per cui chi ti arresta, per una sparatoria vuol, farsi i selfie con te se ti riconosce come un cantante quasi famoso.
Ovviamente la soundtrack (sempre opera di Glover) è un contrappunto fondamentale a tutti gli eventi, tanto da non essere un corollario. La cosa che più colpisce è la naturalezza con cui si inserisce all'interno del racconto, non è mai qualcosa di esterno. E in generale da Atlanta lo spettatore si sente portato dentro, assimilato in un contesto suburbano che è sia straniante sia sempre più simile a quello di tutte le periferie globalizzate. Tanto più quando il registro punta sul grottesco. E qui il paragone va subito a Empire, serie sul rap molto più plastificata ed infarcita di cliché. Invece a colpire di Atlanta è il suo essere sempre sotto o fuori tono. Il giocarsi tutto sui dialoghi che passano dallo scurrile al filosofico («Siamo destinati a fallire? siamo qui solo per rendere la vita facile ai vincenti?»).
Insomma una sorta di surrealismo, amaro, in stile blackpower ma con gli echi del cinema indipendente a là Clerks che è decisamente sperimentale e innovativo. Il risultato non è per un pubblico onnivoro, ma è comunque interessante.
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