La leggerezza di una mano femminile che sa sfiorare senza strappare. La precisione di un calcolo capace di tenere assieme le leggi della fisica, le condizioni atmosferiche e un pizzico di intuito. La capacità di svuotare la mente, dimenticare tutto - soprattutto la pietà - e farsi tutt'uno col bersaglio per anticiparne le mosse con un tiro in deflessione.
Questo e molto di più è stata Ljudmila Pavlichenko per 309 volte. Le 309 volte in cui un suo proiettile ha colpito un nemico a più di 800 metri al secondo, a distanze impressionanti, oppure da angolazioni incredibili, dopo che lei era stata nascosta per ore nella neve e nel fango.
Questo e molto di più si trova nell'autobiografia che Ljudmila Pavlichenko (1916-1974) scrisse con penna discreta, era laureata in storia e poliglotta, e che ora viene tradotta in italiano per i tipi di Odoya e con il titolo La cecchina dell'Armata rossa (pagg. 316, euro 22).
Ljudmila che dopo il Secondo conflitto mondiale divenne maggiore e, dal 1945 al 1953, fu assistente ricercatore del Quartier generale della Marina Sovietica, descrive nel dettaglio le battaglie per Odessa e Sebastopoli che contrapposero le truppe sovietiche alle molto meglio organizzate armate dell'Asse sul fronte Sud durante le prime e trionfali, per la Germania, fasi dell'operazione Barbarossa.
Ma che senso può avere per chi non sia un cultore di cose militari leggere le pagine di Ljudmila?
Moltissimo se le si legge in filigrana. Perché sono lo specchio di un'epoca tremenda in cui la natura profonda degli esseri umani veniva denudata, dalla ferocia del fronte, sino alla sua essenza. Quelli di Ljudmila non sono i diari di un grande scrittore come Ernst Jünger, ma si respira, dall'altra sponda del fronte, la stessa attitudine ad attraversare le tempeste d'acciaio. Ljudmila in trincea si sposò e vide il marito, tenente, dilaniato dalle granate. Ljudmila si ritagliò uno spazio di rispetto in un ambiente prettamente maschile. Divenne «la lince», la strega, la fattucchiera che i tedeschi non potevano uccidere. Però la ferirono più volte e, alla fine, la propaganda sovietica decise di portarla via dalla prima linea, serviva da viva, trasformata in icona, da esporre con ben visibile sul petto la medaglia dell'ordine di Lenin.
Iniziò così la seconda vita della «compagna cecchino» che venne anche spedita negli Stati Uniti a fare propaganda. Attività che la schietta Ljudmila odiava. E che generò dialoghi surreali come questo quando la fuciliera più precisa dell'Urss incontrò i giornalisti o nello specifico la moglie del presidente Roosevelt: «Eleanor Roosevelt: E voi chi siete? Ljudmila Pavlichenko: Sono un cecchino. E.: Una donna cecchino? L.: Nel nostro Paese le donne combattono in guerra assieme agli uomini. E.: E quanti uomini ha ucciso? L.: Nessun uomo, solo nazisti. 309».
Alla fine le due donne, pur così diverse, si piacquero. Erano entrambe d'acciaio. Ma forse Ljudmila lo era meno di quanto volesse sembrare. Dall'autobiografia si intuisce e non solo perché, nonostante la retorica, inevitabile e prudenziale in Urss se non si voleva finire in un gulag, alle volte le sfuggano dei commenti molti sinceri verso le bugie dello stalinismo. Ma anche per tante piccole frasi, quasi nascoste per pudore. «Non guardavo mai il volto di chi avevo ucciso... Feci dei tremendi incubi... Mi svegliai in stato di choc... Chiesi altra valeriana... Il terrore nelle buche».
Nessuno si premurò, negli anni Cinquanta in Urss, di capire se qualcuno avesse sintomi da choc di combattimento. Ljudmila se li curò da sola, nascondendo il dolore nel profondo. «Non ho ucciso uomini. Solo fascisti. 309». Se lo ripeteva spesso.
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