Immaginate la sofisticata Holly di Colazione da Tiffany con un pitone che le fa da sciarpa. Sui manifesti il viso da audace bimba di Audrey Hepburn è enorme, su un sottofondo pittorico con giungla, giaguaro, serpentone e selvaggi. Siamo nel 1959 e Green Mansions (per noi Verdi dimore), diretto da Mel Ferrer, è girato a Canaima, in Venezuela, su cui esplode il Salto Angel, la cascata più vertiginosa del pianeta. Nelle fotografie di repertorio l'attore protagonista non pare - come è - Anthony Perkins, che l'anno dopo girerà Psycho, ma quel tipo dal profilo aristocratico, alto, filiforme, evidentemente forte, con un cappello a tesa larga, pare il prototipo di Indiana Jones. La troupe americana gli affibbia quel nomignolo che gli resterà impresso per tutta la vita, fino al 1994, quando un cancro al cervello lo sfinisce, «Jungle Rudy», Rudy della giungla.
In realtà, «Jungle Rudy» si chiama Rudy Truffino, è olandese, si è trasferito nella Gran Sabana, quel vasto altopiano venezuelano, «un territorio pressoché ignoto; dal punto di vista scientifico inesplorato quanto la luna», nei primi anni Cinquanta e sangue italiano gorgoglia nelle sue vene. Il nonno di Rudy, Carlo Giuseppe Domenico Truffino, era di Pognana Lario, minuscolo borgo sul lago di Como, era «stato nominato gioielliere di corte dal primo re d'Olanda», il quale, noblesse oblige, s'era infatuato della di lui moglie, Marta Maria Peverelli, «summa di tutto ciò che per il re rappresentava la bellezza mediterranea», tanto che, si malignava a corte, «non tutti i nove figli di Maria erano dell'orafo». Il padre di Rudy, Henricus, era banchiere con il tic dell'artista: il figlio capì che l'Olanda gli stava stretta, prima s'impiegò in un allevamento di bestiame in Africa, poi fece il veterinario alle Antille, «a Caracas dormì sotto ponti e cavalcavia, vendendo biscotti per strada», infine, la scoperta dell'Eden personale, la terra promessa e sconosciuta, quella regione infinita, infinitamente aliena, in Venezuela.
Secondo la leggenda, Rudy Truffino, che pare il calco di Henderson the Rain King (cioè Il re della pioggia) di Saul Bellow, con una mano rabboniva le fiere e con l'altra metteva un disco: «per riuscire a sopravvivere nella giungla, ascoltava regolarmente il Don Giovanni o una vecchissima registrazione di Ella Fitzgerald». Di certo, la biblioteca di Rudy era fornita, «si era circondato di un migliaio di libri», alternava la lettura di Così parlò Zarathustra e quella degli hard-boiled americani; aveva una collezione di «venti pipe... una per ogni stato d'animo».
«Era il 1995, ero nell'isola caraibica di Curaçao quando qualcuno mi parlò per la prima volta di Rudy Truffino. Mi dissero che viveva nella Gran Sabana. Dalla terrazza della mia casa, durante le giornate più limpide, vedevo le montagne del Venezuela... l'idea che lì, nel folto della foresta, avessi potuto trovare un avventuriero, un vero esploratore, mi entusiasmava», mi dice Jan Brokken, scrittore olandese che ha elevato ad arte il genere del romanzo biografico e che intorno all'epopea di Truffino ha scritto un libro pieno di luce e di vento, Jungle Rudy, pubblicato in origine nel 1999 e ora da Iperborea (pagg. 320, euro 18, traduzione di Claudia Cozzi). Di Rudy, Jan Brokken, che ne Il giardino dei cosacchi (Iperborea, 2016) ha dato vita e voce a Dostoevskij - «scrivendo di Rudy Truffino ho creato la leggenda, scrivendo di Dostoevskij ho distrutto il mito» -, non nasconde le difficoltà, le contraddizioni, l'implacabile gloria. Prima di diventare l'enigmatico guru di quel lato di mondo, accompagnando «naturalisti che volevano approfittare della sua conoscenza enciclopedica», Rudy ha sofferto («si nutriva di formiche e vermi... aveva barattato i vestiti con arco e freccia, ma ci vogliono anni di allenamento per colpire un pesce nel fiume e portarlo in superficie... aveva ventisette anni e nessuna certezza di arrivare ai ventotto»), fino a fare della giungla il suo destino.
Tra gli incontri eccentrici, Brokken ricorda quello tra Rudy e Werner Herzog. «Il cineasta tedesco trascorse una settimana nella Gran Sabana alla fine degli anni Ottanta e, durante le nottate passate a chiacchierare, Truffino scoprì la storia di Fitzcarraldo, l'avventuriero irlandese che si era messo in testa di costruire nella foresta amazzonica un teatro dell'opera, alla cui serata inaugurale avrebbe cantato Enrico Caruso». Truffino, fisico inquieto come quello di Kinski, si rivedeva in Fitzcarraldo e nell'impresa di Herzog. Sposato con Gerti Koppenwallner, reporter in cerca di esotismo, figlia di un orafo di Salisburgo, Rudy amò alla follia Els, solida olandese, poco più che ventenne, sposata. L'aveva conosciuta nel '69: dieci anni dopo, questa specie di Kurtz lascia le tenebre venezuelane, piglia un aereo, atterra all'Aia per una conferenza. In realtà, «Rudy era tornato in Olanda soprattutto per riprendere i contatti con lei... prese Els tra le braccia e scoppiò in lacrime, singhiozzando sulla sua spalla come un bambino, e al cospetto dell'intera platea balbettò che l'amava e che stavolta non l'avrebbe mai più lasciata andare». Rudy non lascia la giungla per Els e Els non abbandona la civiltà per Rudy: «si amavano, si amano, ma sono entrambi intrappolati nelle rispettive vite».
Fuga dal convegno umano, incontri memorabili, amore straziante: nella storia di Jungle Rudy c'è tutto. Un incrocio tra Via col vento e Cuore di tenebra. Jan Brokken mi sfida, con una sentenza: «Ognuno di noi desidera andare in un luogo ignoto, in uno dei rari luoghi vergini del mondo. Nel profondo della nostra anima siamo tutti Rudy Truffino. Ma non abbiamo il coraggio di andare fino in fondo».
Lo scrittore, però, in fondo, al fondo di tutto, va davvero, gli faccio. «Già. Lo scrittore è come l'esploratore: davanti a sé ha uno stuolo di pagine bianche, un mondo vergine a cui dare forma. Ma alla fine, sta comodamente a casa sua». Alla fine, siamo tutti codardi.
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