Appunti di un cronista da festival
Gli intellettuali di solito hanno tutti lo stesso hobby. Se stessi.
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Giovanni Macchia, uno dei maggiori francesisti che l'Italia abbia avuto, non è mai stato a Parigi, neppure una volta, in tutta la sua vita. «Sarebbe un'emozione troppo forte, non resisterei», spiegò una volta a un amico.
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Antonio D'Orrico dal vivo non è così stronzo come quando scrive. La storia del famoso titolo su «Faletti, il più grande scrittore italiano vivente», ad esempio. Fu una enorme cazzata, certo (e anche pericolosa, tenendo conto che in molti ci hanno creduto). Ma non fu lui a deciderlo. D'Orrico propose «il più grande giallista vivente». Che era già tanto. Fu Ferruccio De Bortoli, quando vide le bozze di Sette, a cambiarlo. Almeno, così la racconta D'Orrico.
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Per molte scrittrici la lingerie fa bene all'autostima. Infatti le più brave non la portano.
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Giulio Einaudi, dall'inizio alla fine, avrà letto sì e no dieci libri in tutta la sua vita. Che nulla toglie alla sua grandezza di editore. Ma aggiunge qualcosa alla sua piccolezza di uomo.
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La storia della letteratura raramente la scrivono gli scrittori. Più spesso lo fanno i critici, i giornalisti, gli editori, i lettori ovviamente (e a volte persino i moralisti: parlate di un libro in toni morbosi e diventerà un classico. O, se va male, un best seller).
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I lettori, mediamente, sanno più cose di un giornalista. Gli intellettuali, meno.
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I libri più belli non sono quelli pubblicati. Ad esempio, le lettere d'amore tra Italo Calvino e Elsa De Giorgi, che la vedova Chichita Calvino non ha mai voluto si pubblicassero, dicono siano meravigliose.
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Vedove, figli e nipoti: non esiste in natura un animale più rapace degli eredi dei diritti d'autore di grandi scrittori e giornalisti (e secondo me la vedova di un noto scrittore del secondo Novecento italiano fabbrica di suo pugno testi che poi spaccia come inediti del marito).
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Le stroncature non sempre fanno male.
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Raffaele La Capria ha una delle terrazze con vista sulla città più belle di Roma (ma questo lo sanno tutti). Napoletano di nascita ma romano di rinascita, romanziere e giornalista, dandy, Panama e pochette, belle donne, brillante, e appunto una terrazza magnifica. Ecco perché in tanti hanno pensato a lui come ispiratore del Jep Gambardella della Grande bellezza. Lui però è più simpatico di Toni Servillo.
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Elio Vittorini, che tradusse molti americani, da Faulkner a Poe, e curò la celebre antologia Americana, non mise mai piede negli Stati Uniti. Leggeva l'inglese molto bene, ma dicono lo parlasse malissimo. Per le traduzioni, è noto, si servì abbondantemente dell'aiuto (segreto) di Lucia Rodocanachi, la quale gli forniva le traduzioni letterali delle opere. Che Vittorini poi rimaneggiava e firmava. Un pessimo inedito vale molto più di un eccellente già noto.
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Non esistono differenze (e persino antagonismi) di ordine politico, ideologico, editoriale, religioso, personale o affettivo che possano far desistere uno scrittore o un giornalista dal chiedere la recensione del proprio libro a qualcuno. In nome di trenta righe si seppellisce qualsiasi odio e antipatia.
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Trenta righe, alla fine, non si negano a nessuno.
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Frequentare gli intellettuali, di destra e di sinistra, ti fa diventare nei loro confronti non solo tollerante. Ma indifferente.
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Piero Chiara, finito di pranzare o cenare, ruminava sempre uno stuzzicadenti.
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Il pregiudizio secondo cui il lavoro intellettuale è inferiore a quello manuale, alla fine, forse non è un pregiudizio.
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Edoardo Sanguineti, da vero comunista, era una persona gentilissima.
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I giornalisti, mediamente, vestono malissimo. Gli editori, però, molto peggio. Con l'unica distinta eccezione di Nino Aragno (sofisticato gentleman di lignaggio piemontese e di stoffe inglesi, così snob che ama ricordare ai propri collaboratori: «Mi raccomando, cerchiamo di fare solo libri che non vendono. Se la gente li vuole, significa che abbiamo sbagliato tutto»).
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Il corrispettivo mondano del fatto che romanzieri e giornalisti scrivano senza leggere, è che alle cene tra giornalisti e scrittori tutti parlano e nessuno ascolta.
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Aneddoto che, per racconti raccontati, si tramanda al «Giornale». In un anno imprecisato, attorno alla metà degli anni Ottanta, arriva in redazione, indirizzata a Indro Montanelli, una copia omaggio della ristampa anastatica della rivista «La Voce» di Prezzolini. Un libro di un certo valore. Tempo pochi giorni, e l'opera - tenuta nello studio del direttore - sparisce. Montanelli fa finta di nulla. Conosce bene i suoi giornalisti, soprattutto i malati di libri, fra i quali spicca un bibliofilo fuoriclasse, Marcello Staglieno. E comincia a preparare la vendetta. Passa molto tempo. Nessuno - tranne il destinatario del dono e l'incauto trafugatore - ricorda più l'episodio. Poi, una mattina, alla consueta riunione di redazione, qualcuno accenna a Prezzolini, e a un suo pezzo scritto quando dirigeva La Voce, che però non è sicuro, che bisognerebbe verificare... È il momento giusto. Montanelli, con nonchalance, butta lì: «Bisognerebbe avere una raccolta completa della Voce, tempo fa ne era stata fatta un'edizione speciale, con la copertina di tela, ma chissà chi ce l'ha...». «Io a casa ce l'ho direttore!», si impettisce Staglieno. Montanelli, dall'altra parte del tavolo, si alza in piedi di scatto, con il lungo braccio magrissimo e l'indice ossuto puntato: «Ladrooooo!».
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In tutte le redazioni dei giornali ci sono almeno due ladri di libri. In quelle dove ho lavorato io, l'altro non l'ho mai scoperto.
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Quando si passa la vita a commentare i difetti degli altri, si finisce col dimenticare i propri.
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