Cultura e Spettacoli

Vollmann cerca l'America in un arcobaleno di spettri

Torna la raccolta di racconti dell'89 che è uno dei suoi capolavori. Un viaggio fra anime perse

Vollmann cerca l'America in un arcobaleno di spettri

«Storie dell'arcobaleno lascia William T. Vollmann a vagare in una terra di nessuno tra Tom Wolfe e Thomas Pynchon, con pagine che non possono corrispondere alla sua enorme ambizione e talento». Così scrisse il New York Times nel 1989, dopo pochissimi giorni dall'uscita nelle librerie di questa raccolta di racconti, era il suo secondo libro, che oggi è considerato uno dei suoi capolavori mentre Vollmann è ormai universalmente riconosciuto tra i più grandi autori non solo americani contemporanei. Da scrittore per pochi, apparentemente elitario per storie ai limiti dell'esistenza - certe volte così incredibili da sembrare inventate, mentre sono vita vera vissuta nel mondo da scrittore e reporter - e con uno stile capace di coniugare l'asciuttezza delle frasi a un massimalismo che lo può far sembrare l'ombra di Pynchon. Eppure Vollmann è un gigante della letteratura: non esiste oggi uno scrittore capace di vivere davvero i suoi romanzi prima di scriverli.

Capace, subito dopo la laurea, di fare l'assicuratore per qualche mese solo per guadagnare abbastanza per partire per l'Afghanistan durante la guerra con i sovietici e poi scrivere un romanzo-reportage unico nel suo genere come Afghanistan Picture Show. Sino allo scorso anno i suoi libri in Italia erano dispersi tra vari editori (Fanucci, Alet, Mondadori) ma ora Minimum Fax ne sta riproponendo tutta l'opera con traduzioni rivisitate. In libreria sta per arrivare proprio Storie dell'arcobaleno, ormai da anni introvabile nella prima edizione nella collana «Avant Pop» di Fanucci, con la traduzione di Cristiana Minnella (pagg. 600, euro 19): non spaventi il numero di pagine perché Vollmann è tra i pochi che riescono a farsi leggere con attenzione e con un immediato rispetto e, anche davanti alle scene più violente, riesce sempre a far trapelare la propria umanità. Vollmann non è l'ubriacone compiaciuto delle storie di Bukowski, ma è - come si definisce lui stesso all'inizio del libro - «un semplice angelo della registrazione». Non ci sono filtri, se non quelli di una scrittura ultra-realista, e scrivendo di skinhead, neo-nazisti, pazienti di radiologia, prostitute, tossicodipendenti, malati di Aids è fedele alle parole del filosofo Robert Gilmore McKinnell: «Anche se non è il caso di dedicare un vademecum a un gruppo di vertebrati a sangue freddo, una parola gentile non guasterebbe». È questa la grandezza di Vollman: far diventare sangue e inchiostro il buio della luce della vita. Pur scrivendo di drogati all'ultimo stadio che non trovano più le vene e sono costretti a lubrificare l'ago della siringa con il proprio cerume, di prostitute nere con gli occhi gialli per l'epatite, o se per tre pagine descrive l'autopsia eseguita su un'alcolizzata di nome Evangeline. Segue il bisturi mentre si aggira nel suo corpo, rimuovendo magnifici reni viola, staccando la pelle che copre il suo viso e segando il suo cranio. Eppure Vollmann è intriso di abbastanza umanità per evitare che il lettore cambi pagina in preda al disgusto. Vollmann non è mai morboso, ma neanche distante: è preso da una pietas sempre più rara nella letteratura di oggi.

Come Kafka, Vollmann scrive racconti generati dal dolore e dall'alienazione, sentimenti che lui stesso prova: empatizza con chi racconta perché non li inventa, ma ne è testimone diretto. C'è un'epigrafe da Berenice di Edgar Allan Poe che rivela la logica di Le storie dell'arcobaleno: «Molteplice è l'infelicità. La sventura terrestre è multiforme. Sovrastando come l'arcobaleno la verità dell'orizzonte, i suoi colori sono vari come le tonalità dell'iride: così distinte, eppure così intimamente mescolate». Perché Vollmann condivide in larga misura l'umorismo bizzarro, l'erudizione stravagante e lo stile di prosa di Poe. Come ha dichiarato in un'intervista al saggista Larry McCaffery nel 1993 (The Review of Contemporary Fiction, Vol. 13.2): «Il modo più semplice per dirlo è che in Storie dell'arcobaleno volevo capire com'è l'America: volevo guardare alle anime perse e alle persone marginali, con la speranza che forse comprendendole avrei potuto aiutarle in qualche modo. L'esperienza di scrivere mi ha portato a realizzare che ancora non capivo nulla dell'America e che probabilmente non l'avrei mai capito. Ma mi venne in mente che un modo per iniziare a capire sarebbe stato quello di vedere da dove siamo venuti noi americani e come siamo cambiati».

In questi tredici racconti lunghi le storie sono etichettate con i colori dello spettro: rosso per il sangue e la prostituzione, giallo per il mito e il romanticismo, un freddo blu per la perdita e la morte.

Leggendo Le storie dell'arcobaleno sono moltissimi i parallelismi del libro con altre idee di Vollmann che appaiono più tardi nella sua opera. Quando racconta la figura dell'«artista fallito come impiegato» ricorda quasi immediatamente la descrizione di Vollmann dei pendolari che entrano in metropolitana come «scarabei stercorari» al lavoro in The Royal Family, romanzo di 1200 pagine ancora inedito in Italia. L'altro punto in comune è che la narrazione è composta in gran parte da aneddoti, con frequenti note di Vollmann scrittore che ci fanno capire i suoi metodi di lavoro. Quando parla con alcune spogliarelliste, per esempio, Vollmann lascia delle note a piè di pagina che esprimono quanto è costato in dollari un particolare paragrafo. È una tecnica curiosa, ma attorno al denaro gira tutto il mondo che Vollmann racconta. Sono i soldi che gli permettono di continuare a fare quello che fa.

Ed è il denaro che motiva i suoi personaggi, che sono il vero spettro di un'America che continua a danzare nel proprio stesso buio all'ombra del dollaro.

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