Vonnegut ci ha ingannati. Dietro alla finta fantascienza ha nascosto il vero realismo

Pochi aneddoti, molta attenzione alle opere. Così il libro di Schembri riesce a fornire spunti interessanti

Vonnegut ci ha ingannati. Dietro alla finta fantascienza ha nascosto il vero realismo

«Noi siamo quelli che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare attenti a quello che facciamo finta di essere», memorabile aforisma di Kurt Vonnegut Jr. Ma chi era Kurt Vonnegut Jr., veramente? O meglio, chi faceva finta di essere? Di certo non era uno scrittore di fantascienza, anche se faceva finta di esserlo. Almeno non nel senso di genere narrativo di consumo in cui i critici hanno sempre ingabbiato la fantascienza, spesso sbagliando. Altrimenti dovremmo inserire nel genere anche La metamorfosi di Kafka, Thomas Pynchon o David Foster Wallace.

In realtà Vonnegut era uno scrittore complesso e profondo, e finalmente gli rende giustizia il bel saggio intitolato Kurt Vonnegut Jr. di Pascal Schembri (edito da Odoya, esce il 31 agosto), un italiano naturalizzato francese, perché i letterati italiani rimasti in Italia al massimo citano Primo Levi. A proposito, un paragone sensato: Kurt Vonnegut come Primo Levi. Entrambi deportati in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale (Levi a Auschwitz in quanto ebreo, Vonnegut in campo di lavoro a Dresda in quanto soldato), entrambi con una formazione scientifica (Levi era laureato in chimica, Vonnegut studiò chimica ma si laureò in antropologia), entrambi segnati dalla terribile esperienza bellica tanto da farne un'ossessione nei propri libri.

Come se non bastasse lo scrittore di Indianapolis, tornando negli Stati Uniti il 14 maggio 1944, assistette al suicidio della madre, Edith Lieber Vonnegut, proprio il giorno della Festa della Mamma. La disgrazia ricorrerà nei libri di Vonnegut, come la mamma del protagonista de Il grande tiratore (1982), che Vonnegut farà però morire per le conseguenze di protezioni di amianto disseminate nell'abitazione della donna.

Ma per capire Vonnegut non bisogna andare a frugare nella sua autobiografia, e per fortuna Pascal Schembri non è Sainte-Beuve o De Sanctis. Bastano le opere. E le sue straordinarie invenzioni fantastiche, che usano la fantascienza come mezzo per rappresentare l'umanità. Pacifista ad oltranza, perché «quando sei morto, sei morto», nel '61 consigliava «Fai l'amore quando puoi, ti fa bene», anticipando il motto del Sessantotto «Fate l'amore, non la guerra». Il suo modello: Mark Twain (uno dei tre figli lo chiamerà proprio Mark), dal quale prenderà tanto il pacifismo quanto la critica feroce alle religioni e alla società. Con una visione irrimediabilmente tragica e materiale dell'essere umano: «Sono portato a vedere gli esseri umani come delle enormi provette di caucciù ribollenti di reazioni chimiche» scrisse ne La colazione dei campioni, nel 1973. Non l'uomo di Rousseau e il relativo mito del Buon Selvaggio, più simile piuttosto a quello moderno visto dalla biologia, dalla genetica o dalla psicologia evoluzionista, con tutte le sue pulsioni distruttive installate nel cervello da milioni di anni (e Vonnegut conosceva bene l'evoluzione, basti leggere il romanzo Galapagos). Con Madre notte, del 1961, storia di un detenuto in un carcere israeliano per crimini di guerra nazisti, Vonnegut rivaleggia con Hannah Arendt nel vivisezionare la banalità del male (e anche quella del bene), traendo ispirazione dal Faust di Goethe.

In ogni caso il leitmotiv di Vonnegut è quello del superstite, come è stato superstite lui dal bombardamento di Dresda, salvandosi nelle grotte di un mattatoio, episodio al centro di uno dei suoi capolavori, il celebre Mattatoio numero 5, romanzo del 1969. Pochi anni prima, nel 1963, aveva scritto un'altra opera fondamentale, Ghiaccio-nove, in cui accusava l'indifferenza degli scienziati rispetto alle loro scoperte, per esempio quelle che hanno portato alla bomba atomica e al genocidio di Hiroshima e Nagasaki. Dove si inventa perfino un religione con una articolata teologia, il Bokoninismo, in quanto «tutte le religioni esistenti sono fatte di bugie», ma forse sono utili a vivere meglio. Come aveva concretizzato nella realtà un altro scrittore di fantascienza, Ron Hubbard, negli anni Cinquanta, creando dal nulla la Chiesa di Scientology.

Tra l'altro Vonnegut inventa una civiltà extraterrestre, i Trafalmadoriani (che talvolta sono macchine e altre volte simili a sturalavandini), travasati anch'essi di romanzo in romanzo, con una filosofia precisa, ben sintetizzata da Pascal Schembri: «Per chi ha la facoltà di vedere il tempo, passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno, dunque diventa inutile e sciocco piangere un caro estinto o crucciarsi per l'avverarsi di qualcosa: il morto è sempre stato morto in quel punto del tempo e l'avvenimento è sempre avvenuto». Così i trafalmadoriani, di fronte a un proprio caro morto, alzano le spalle e dicono: «Così va la vita». Tra i suoi tanti alter ego, Vonnegut inventa anche uno scrittore di fantascienza trash, Kilgore Trout, che pubblica su riviste pornografiche e serve a esorcizzare e ironizzare sull'appartenenza a un genere commerciale.

Insomma, altro che scrittore di science fiction: Vonnegut era un realista estremo, un esistenzialista che utilizzava l'immaginazione per dare un senso alla vita e all'Universo. Anche se questa vita un senso non ce l'ha, come canta il poeta Vasco Rossi.

Di fronte al genocidio, allo sterminio, alla morte, a Auschwitz o a Dresda, l'ultima parola viene lasciata spesso a un uccellino, il quale cinguetta serenamente su un ramo: «Puu-tii-uiit?».

La natura è indifferente a ogni sofferenza, umana e animale, e qui Vonnegut sfiora quasi l'infinito Giacomo Leopardi.

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