di Tony Damascelli
T ra la provocazione e il paradosso si potrebbe anche ritenere che la guerra contemporanea, dal duemila e sei in poi, tra Juventus e Inter sia una semplice lite condominiale rispetto ai favolosi e clamorosi anni Sessanta, quelli sì velenosissimi, maledetti, anche cialtroneschi. Molti ricorderanno l'epilogo del campionato dell'Unità d'Italia e del divorzio tra Torino e Milano. La Juventus vinse lo scudetto pareggiando con la Bari e l'Inter andò a perdere a Catania contro la squadra definita di «postetelegrafonici» da Helenio Herrera. Era l'ultima giornata ma i fatti e i misfatti erano già compiuti. Il sedici di aprile il pareggio 0 a 0 al Comunale di Torino non venne convalidato, dopo trentuno minuti l'arbitro Gambarotta, dopo aver consultato il capitano interista Bolchi, fischiò la sospensione e da qui la fine della partita. Ai bordi del prato di gioco si erano assiepati almeno diecimila spettatori, gli invasori pacifici come vennero definiti, un paio di quali avevano preso posto addirittura in panchina a fianco di Herrera che aveva preferito starsene alla larga. Ovvia l'interruzione, ovvia la concessione della vittoria a tavolino per 2 a 0, secondo le regole del tempo, per responsabilità oggettiva del club di Umberto Agnelli il quale svolgeva, pensate un po' ai giorni nostri, l'incarico parallelo di presidente della federcalcio. Lo spogliatoio nerazzurro era abbastanza tranquillo visto lo scempio là fuori, Gian Marco Moratti, venticinquenne, parlò a nome del padre assente per impegni, trovò avallo nel commendatore Ceresa, accompagnatore della squadra, in Gattai e il giovane Allodi e nel dirigente Rapizzi, in breve l'Inter era sicura di avere in tasca la vittoria e di ridurre da 4 a 2 punti lo svantaggio dalla capolista bianconera. Così accadde, la giustizia sportiva, sotto la presidenza di Di Gennaro, sentenziò il 2 a 0 a favore dei nerazzurri. Era il ventisei di aprile e il campionato prometteva le ultime sei partite di fuoco. L'Inter conquista 8 punti, la Juventus 6. Nel frattempo la società bianconera presenta un ricorso di ventidue cartelle dattiloscritte e illustrate dall'avvocato Chiusano che sostiene l'assoluta estraneità del club all'invasione a al referto arbitrale di Gambarotta secondo il quale si sarebbe potuto ancora giocare, come era accaduto già il 22 ottobre del 1950 in occasione di Juventus-Milan, con una analoga invasione di campo «pacifica» e con l'arbitro Bellè che aveva fatto proseguire la partita dopo aver consultato il parere favorevole del capitano milanista Tognon (il risultato venne definito dai gol di Gren, che sbagliò anche un rigore, e di Karl Hansen su rigore!), il ricorso dell'Inter è di undici cartelle e si poggia sulla menomazione psicologica dei calciatori nerazzurri e sulla responsabilità oggettiva bianconera. La prima riunione della Caf portò al rinvio, il campionato intanto continuava la sua corsa. Si arrivò a sabato 3 giugno, vigilia dell'ultima giornata. Il presidente Di Gennaro e i suoi due collaboratori La Volpe e Pistolesi scrissero la sentenza dopo tre ore di consiglio, due a favore della ripetizione della partita, uno, il presidente Di Gennaro, contrario. Juventus-Inter andava rigiocata, la società bianconera avrebbe dovuto pagare una multa di 4 milioni (dunque responsabile). Lo scudetto andò alla Juventus e la partita «finta» con l'Inter venne giocata il 10 giugno e si concluse 9 a 1 per i bianconeri con 6 gol di Sivori (nella foto), il gol interista fu realizzato da Alessandro Mazzola, esordiente come tutti i suoi compagni. Angelo Moratti aveva deciso di spedire a Torino la squadra dei ragazzi, per protesta clamorosa e acerba, lo stesso Herrera restò a casa delegando a Torino Meazza. La scusa ufficiale? Nella stessa giornata l'Inter era impegnata nella semifinale del campionato De Martino (il torneo delle riserve) proprio contro la Juventus, dunque Herrera preferì mandare in campo Facchetti, Bolchi, Mascalaito e Corso con le riserve mentre Balleri era squalificato, Buffon e Firmani indisponibili, Bicicli e Picchi con leggeri infortuni. Fatto sta che l'Inter perse anche la semifinale di San Siro 3 a 2.
L'epilogo di Torino è noto a tutti: esordio di Mazzola e conclusione della carriera di Boniperti che dopo 444 partite (non presenze come oggi vengono archiviate e celebrate) consegnò le scarpe da gioco al magazziniere Crova: «Ecco, prendile, io ho smesso». Crova, con il camice bianco, fece una smorfia e replicò. «Ma va, va, falabrac». E furbo fu, Boniperti Giampiero, da Barengo.