Ci stanno conoscendo. Anzi riconoscendo. Grazie al football. Non più catenacciari, simulatori, mammoni. Adesso esportiamo cervelli, docenti che insegnano calcio, abitudini alimentari, maestri di tattica. Finalmente il resto del mondo ha capito la lezione. Carlo Ancelotti si è presentato ai tedeschi di Germania parlando la lingua loro con folklore diverso da quello del Trap di Strunz e raccogliendo applausi e stupore tra gli astanti. I quali ritengono che gli italiani siano sempre quelli di spaghetti+pizza+mandolini nel piatto di Gomorra, anche perché siamo noi, i primi, ad alimentare la leggenda con la cronaca quotidiana.
Antonio Conte, a Londra, ha letto i dieci comandamenti che già fanno tremare le belle gioie del Chelsea. Il salentino, da oltre un anno spiks un inglisc non fluente ma comprensibile, meno terrible (agghiacciante) di quello che Uolter Mazzarri ha snocciolato alla presentazione del Watford. Guidolin mormora un buon inglese in terra gallese, a Swansea, e, per lui, parla il campo. Claudio Ranieri è ormai un baronetto made in United Kingdom, con il titolo di campione d'Inghilterra va a corte e riceve onori di ogni tipo. Ormai trapassati i tempi in cui Mourinho lo prendeva volgarmente in giro perché sapeva pronunciare,e male, soltanto good morning and good night, Claude oggi può illustrare alla City i propri metodi dettagliati di investimento, tecnico e tattico, oh yes.
Idem come sopra per gli altri messaggeri e rappresentanti del nostro calcio, tutti sparsi per il mondo, dall'Occidente all'Oriente, comprese le Americhe. Un onore e un onere, la storia siamo noi, lo confermano le quattro coppe del mondo e l'argenteria dei grandi clubs, dal Milan di Berlusconi all'Inter dei due Moratti, alla Juventus degli Agnelli, prima e dopo, in attesa che anche le romane decidano che cosa fare da adulte.
Milan e Juventus sono i due club che hanno fornito il maggior numero di lavoratori al football mondiale, Lippi e Sacchi, Ancelotti e Trapattoni, Maldini e Ranieri, Conte e Capello, per citare gli illustri.
Di certo Carlo Ancelotti è l'unico, vero special one: ha allenato e vinto, in Italia, in Spagna, in Inghilterra, in Francia e ora va a raccogliere, in Bundesliga, l'eredità di Pep Guardiola che, rispetto a lui, ha soltanto un paio di esperienze, quella catalana e quella tedesca, in attesa del City di Manchester.
Lo stesso Mourinho è in deficit rispetto al nostro Karl: Spagna, Italia, Inghilterra i tre timbri sul passaporto del portoghese che cerca la rivincita con lo United dopo aver scoperto che Chelsea non è sempre un luna park.
Dunque a Monaco di Baviera si chiude il ciclo, non ci sono altri territori nel vecchio continente dove Ancelotti possa, voglia o debba dimostrare il suo valore. Gli manca la nazionale, poi potrebbe anche emigrare in Cina, là dove il futuro è già oggi, anche se con troppe incognite.
Il mappamondo del football ha mille bandiere italiane, ci stiamo scrollando di dosso la polvere di un secolo, le etichette sciocche, anche ignoranti (quelle tedesche prima di tutti ma anche qualche cocoricò francese insiste, Verratti è stato deriso per i suoi lamenti continui da marmocchio). Non saremo presenti ai Giochi di Rio, non siamo campioni né d'Europa, né del mondo, ma il calcio italiano produce idee e uomini che sanno illustrarle.
Nella nostra serie A si segnalano soltanto tre reduci combattenti: Juric, Mihalovic e Paulo Sousa. Gli inglesi, depositari del verbo, smentiscono il Brexit e concedono tredici panchine della Premier league ad allenatori stranieri. E' un altro mondo. Sta diventando il nostro.
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