Il tifoso, essere mitologico con il cuore di panna e la testa fra le nuvole, non fa una bella vita. Si innamora e si dispera, spera e si disillude. Il tifoso milanista, mentre Ibra annuncia il suo ritorno, non fa differenza. Solo che prova tutte le emozioni nello stesso istante.
Da mesi se ne parla e si riguardano i filmati dello scudetto 2011. Roba vecchia, ma sempre meglio di qualsiasi deprimente partita attuale. Punto da insana nostalgia, gli occhi lucidi per la polvere di stelle che a San Siro era comune come sabbia nel Sahara e ora è un ricordo tipo i ghiacciai al tempo di Greta, il tifoso accoglie Ibra da Messia, da eroe greco che cambia l'inerzia della storia.
Ed è qui che qualcosa turba le beatitudini immaginate: la carta d'identità e la cartella clinica. Ibra ha 38 anni, un brutto infortunio lo ha spinto in California, terra di surfisti eccellenti e calciatori declinanti: sicuri che sia la panacea di tutti i mali? Non finirà come Gullit, Sheva e Kakà, partiti purosangue e tornati ronzini? Passi Piatek, ma se pure lui tradisse le attese?
La realtà è che Ibra serve - soprattutto per il carisma -, ma oggi il tifoso medio esulterebbe più per una nuova proprietà fantasmagorica dalle infinite capacità di spesa, tipo il gruppo Lvmh di Arnault. Con Zlatan forse si vincerà qualche partita in più, col modesto miraggio dell'Europa League, ma non si tornerà a quell'ingombrante «Vinciamo tutto» con cui lo svedese si presentò al Diavolo.
Ibra oggi è un antidepressivo che aiuta, una coccola consolante, ma fatta con gli occhi rivolti a un passato d'oro.
Che per essere ricostruito ha bisogno di programmazione, investimenti e pazienza. Il rischio dell'operazione è che tornando a guardare indietro si ricominci ad avere fretta. Che un colpo di taekwondo riacutizzi la nostalgia.
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