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Un’avventura nel vento con l’Italia a bordo

Lo skipper Sirena e la sfida all’America’s Cup simbolo di un Paese colpito che desidera ritrovare la rotta

Un’avventura nel vento con l’Italia a bordo

Chiamatemi Ismaele. La storia di Luna Rossa potrebbe cominciare così, proprio come Moby Dick. La speranza, e la scommessa, è che il finale sia diverso. Si vedrà a marzo, a Auckland, dove tutto è cominciato, nel Golfo di Hauraki, in Nuova Zelanda. Il 2021 è l’anno della nuova sfida. La Coppa America è un’ossessione. La sogni, la insegui, non ci dormi la notte, ti affascina e la maledici, come una balena bianca che lascia nella scia qualcosa di metafisico, una promessa di pace o di felicità. Lo è da vent’anni per Patrizio Bertelli, che per la quinta volta prova a piegare la sorte, senza smettere mai di crederci, sfiorando la vittoria e con una sola sosta, quando il team yankee di Oracle cambiò le regole in corsa e troppe volte. Bertelli disse no. Non si può sempre accettare tutto. Una parte degli uomini di Luna Rossa si ritrovò a lavorare sulla barca neozelandese di Grant Dalton. Vinsero, grazie anche a un’idea geniale, un marchingegno a pedali per portare a pressione il sistema idraulico. È successo tre anni fa, nel triangolo misterioso delle Bermuda. Tra i protagonisti di quell’avventura c’era anche Max Sirena, lo skipper di Luna Rossa. Lo scafo AC75 alza le vele nere su un mare color del vino. È il golfo degli angeli, davanti a Cagliari. Da lontano riesci a scorgere il marchio di Prada, quello giallo di Pirelli, quello blu degli orologi Panerai. A prua il nome: Luna Rossa. Nel parco di Molentargius, lì dove ci sono le saline, la macchia rosa di fenicotteri si muove come un’onda. A giugno comincia la deposizione delle uova. Il profilo di Luna Rossa un po’ ricorda i fenicotteri, con quelle zampe che sfiorano l’acqua, scivolando e poi impennando, come uno strano animale che racchiude il segreto dei pesci e degli uccelli. È un’epica da fantascienza, come se il Pequod del Capitano Achab si fosse reincarnato in una nave volante, leggera, veloce, magica.

A bordo diciotto persone, con due pozzetti dove forse si divideranno la guida due timonieri. Si viaggia a 40 nodi. I monoscafi ufficiali sono due, il primo è stato varato a ottobre, il secondo lo stanno costruendo a Nembro, nei cantieri di Persico, a due passi da Bergamo, proprio lì sul fronte del virus. Il tempo si è fermato. Qui, tra i carpentieri e i falegnami, sul mare, sulle coste della Sardegna, dove si sogna l’American’s cup. È come ritrovarsi su una barca senza vento. Non si naviga e si fa fatica a pensare che da qualche parte ci sia ancora il futuro. Allora devi immaginarlo. Simularlo. Scriverlo. Ridisegnarlo. Ti accorgi, allora, che l’avventura di Luna Rossa assomiglia al destino di questo Paese sospeso e disorientato che in qualche modo dovrà ritrovare la rotta. Da dove ricominciare? Magari proprio da quello che siamo. Su quella nave volante che sfida l’oceano ci sono pezzi importanti del made in Italy. Ripartire, appunto. Eligio Re Fraschini nel 1946 si lascia la guerra alle spalle e scommette sulle sue mani, sul legno. La sua azienda ha ancora casa a Legnano. I due figli però si sono specializzati nella fibra di carbonio. Sono i migliori al mondo. Massimo ama le auto, Piero la vela. Re Fraschini produce tutte le parti in carbonio della Ferrari e di Luna Rossa. Il sistema idraulico della nave è di Cariboni, il mago delle acque. Luna Rossa è di una bellezza da incanto e il merito è di Pardo Yacht. Le strutture per gli allenamenti sono di Technogym, una storia iniziata in un garage di Cesena nel 1983. Quella di Dainese comincia invece a Molvena, in provincia di Vicenza, con un paio di pantaloni da motocross. I corpetti per l’equipaggio sono firmati da loro. Lo spumante è Ferrari e il parmigiano Reggiano. Non è solo una sfilata di marchi. Sono pezzi di un sogno italiano. Retorica? Dipende da come la guardi. Magari è solo la biografia di un Paese, semplice, lineare, qualche volte sorprendente.

Non è facile ricominciare. Max Sirena, lo skipper, ti dice che il tempo perduto non torna. Ti tocca tracciare una linea e metterlo nella casella dei costi. Quello che puoi fare è ripensare quello che hai davanti. Scovare una strada più breve per recuperare la rotta. Senza barare, senza pasticciare, ma cercando un orizzonte che prima non c’era. L’unico modo per ritrovarsi è vedere l’invisibile. Ci vuole coraggio, fatica e fantasia. Allora provi a vedere le cose con i suoi occhi. Ti racconta che non si nasce skipper, ma ci si diventa, lavorando in tutti i ruoli e ogni volta chiedendosi, fin da ragazzo, cosa c’è dietro il lavoro che stai facendo. È la fatica che ti fa crescere. È la curiosità che ti fa migliorare. «Ho cominciato a prua, alzando le vele e sono arrivato a occuparmi di tutto. Se salti i passaggi ti tocca improvvisare al buio e finisci per mentire a te stesso e gli altri». Questa è la sua settima avventura. Ne ha vinte due. Come si scelgono gli uomini? «La risposta più facile è dire: prendo i migliori. Non basta. Qui devi scegliere i migliori in un ristretto gruppo di migliori. Sono tutti bravi. La cosa complicata è metterli insieme. È immaginare una squadra. Allora conta l’equilibrio, la compatibilità, il carattere, le affinità elettive e serve anche qualcuno che scantona, quello che appunto ti aiuta a vedere l’invisibile». La Coppa America è davvero un’ossessione, lavori sette giorni su sette, dodici ore al giorno. Tutto questo per quattro anni e appena finisce pensi che è arrivato il momento di smettere. Basta così. Ti prende tutto, troppo. Poi ci ricaschi. Come Achab. «Quale tiranno spietato mi comanda?».

Navigare, qualcosa di più che sopravvivere.

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