«Azzurri seguiti solo se vanno bene. Fuori è un'altra storia»

Li abbiamo sparsi in giro per il mondo. Come un bicchiere che si rovescia e l'acqua va ovunque. Lontano. C'è quello che allena il volley polacco, quello del ping pong a stelle e strisce, quello che fa sparare la gente del Qatar e quello che «è il meglio in circolazione» sostiene Vladimir Putin, premier ex judoka discretamente influente ogni dove. Trattasi di ct Ezio Gamba, maestro di judo, ct dell'arte marziale russa. Ct d'oro con tale Arsen Galtsyan. E sono cose belle.
L'Italia soprattutto femmina di vittorie, l'Italia che l'economia non va proprio, l'Italia degli atleti che emigrano pur di praticare, è anche un'Italia che esporta commissari tecnici come fossero noccioline. Ex ct e allenatori che non appena varcano il confine scoprono però qualcosa che vissuto sempre da dentro il proprio Paese, in fondo, nessuno si sarebbe mai aspettato: scoprono che l'italiano non tifa o non sa tifare. «Allenando all'estero notiamo subito il diverso calore della gente» dice Andrea Anastasi, ct della Polonia che ha sconfitto l'Italia nella gara d'apertura. Parla dopo aver sbrigato la pratica Inghilterra nell'arena dell'Earl's Court trasformata in un derby tanti sono i tifosi polacchi al seguito.
Sembra che giochiate sempre in casa.
«Non mi stupisco più. Fin dall'inizio è sempre stato così. Ovunque andiamo, nel mondo, quando scendiamo in campo la situazione è questa: tutto esaurito con il palazzetto pieno di polacchi. Sono ovunque. L'anno scorso a Chicago, quindi non dietro l'angolo, c'erano diecimila posti, ottomila erano i polacchi. E così quest'anno, in Finlandia, in Canada».
E contro l'Italia, a inizio torneo olimpico?
«Palazzetto pieno di nostri sostenitori, una meraviglia, questa gente è legata alla patria, ai vessilli che la rappresentano. Quanto al nostro paese, ho visto qua e là solo qualche bandierina. Ed è stato triste».
Da ex ct azzurro se lo spiega?
«Sì, noi italiani, quanto a tifo, siamo bravi e in grado di farlo come si deve se... tutto va bene, se la nostra squadra ottiene buoni risultati. Altrimenti no. Non appena qualcosa va storto ecco che torniamo ad essere esterofili. Siamo fatti così. In Polonia, ma non solo, non è così. Questi ti sostengono comunque e sempre fino alla fine. Sono entusiasti e mi ritengo fortunato a poter vivere un'esperienza simile».
Meglio di quando era ct azzurro, sette anni ha fatto su quella panchina?
«Sì, non c'è paragone. In Polonia non posso neppure girare che subito mi fermano».
Lei però è un ct “traditore”. E' piena l'olimpiade di tecnici come lei, azzurri a spasso per il mondo.
«Lo so, siamo davvero molti».
Sottovalutati in patria?
«No, è solo il desiderio di molti di fare un salto di qualità. Sarebbe riduttivo rimanere sempre nel proprio Paese. Sono alla terza olimpiade, ne voglio un'altra, dovrò cercare una nazionale buona per arrivarci. È questo lo spirito che mi e ci ci anima, è la volontà di respirare aria internazionale, anche di vedere diversamente il proprio paese».
E come lo vede, sportivamente parlando. Abbiamo buoni tecnici in giro e atleti che vincono le medaglie allenandosi all'estero perché in Italia è una corsa ad ostacoli.
«Sono in difficoltà a parlare di questo perché ho lavorato a lungo per la federazione italiana... Però si può migliorare e credo di sapere quale sia l'area che più ne ha bisogno: quella manageriale. In Italia mancano dei buoni manager dello sport».
Gente in grado di spingere al cambiamento, per esempio introducendo aiuti agli atleti che studiano e si allenano.

Come nei college Usa?
«Assolutamente sì, anche se quel modello sarebbe difficile da applicare. La verità è che i ct italiani sono apprezzati e vanno all'estero e sono pagati bene… Adesso bisogna formare manager che abbiano fiuto».
BCLuc

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