
Andrea Pirlo quel taglio lo conosce, rapido, profondo, sul filo immaginario del fuorigioco, sospeso in una terra di nessuno, un attimo prima che la difesa faccia un passo avanti. Sono le 16 e 43 del primo aprile 2001. La Juventus sta vincendo uno a zero e mancano cinque minuti al novantesimo. Pirlo alza la testa e vede, la palla resta in aria per 40 metri e poi cade sul piede destro di Roberto Baggio e lo stop è una carezza a seguire, con Van der Sar che arriva troppo tardi, perché la palla è già oltre di lui, superato, dribblato, senza fare rumore e non resta che parcheggiarla in rete. Questo gol è la poesia del Brescia, indimenticabile. È quello che resta.
Il Brescia è sulla soglia del fallimento. I tre milioni di euro per iscriversi al campionato di C non arriveranno mai. E non è solo una squadra che muore. È una crepa nel tempo, un vuoto che si apre nel cuore di un'Italia che ha smesso di credere nella poesia della provincia. Se ne va la squadra dei miracoli possibili, delle salvezze aggrappate all'orgoglio, dei piedi buoni nascosti dietro le linee dell'orizzonte.
Fallisce la squadra che un tempo aveva Gigi Simoni come ala imprevedibile e Virginio De Paoli come sfondareti. È il cuore sotto la V bianca dei Bonometti, dei Bisoli, degli Zambelli.
È il Brescia di Egidio Salvi, chi inventa il calcio di rigore con lo scavetto prima di Panelka e molto prima di Totti. È il Brescia dei ragazzini terribili: Beccalossi, mancino geniale, e Altobelli, che proprio lì si prende il soprannome di Spillo. È il Brescia dei fratelli Filippini, due gocce d'acciaio che corrono per tre, di Luca Toni, che prima di vincere il mondo, impara a cadere e rialzarsi in mezzo a un pubblico che non fischia mai, ma aspetta. E poi Guardiola, il professore catalano che impara l'italiano leggendo Machiavelli e accanto a lui, il più giovane, il più silenzioso, Andrea Pirlo, che lì impara a guardare il tempo, a rallentarlo, a lanciarlo. È la corsa di Mazzone contro la curva dell'Atalanta, con il pugno destro a maledirli tutti, senza più fiato, senza respiro.
È Darione Hübner, il centravanti che viene dalle birrerie e dalle
balere, che segna e fuma, l'idolo di chi non crede nei superuomini. È la montagna di gol, centosettantanove, dell'Airone Andrea Caracciolo. È il sorriso di Vittorio Mero e l'ultima meravigliosa canzone di Roberto Baggio.