Il dibattito è aperto. Il festival della lacrimuccia andato in scena - meglio dire in campo - nell’ultimo week end ha portato allo scoperto due schieramenti. Da una parte l’esercito dei tifosi e appassionati inteneriti. Tutta gente cromosomicamente sportiva e quindi politically correct in quanto convinta che sempre, prima di tutto, venga l’emozionalità dei propri eroi, l’emozionalità figlia dell’adrenalina sportiva e l’emozionalità da proteggere e preservare nelle sue spontanee manifestazioni. Per cui mano sul cuore e grande riconoscenza innanzi alle lacrime dei vari Gattuso, Zambrotta, Inzaghi, Van Bommel e dello stesso Del Piero che il luccicar d’occhi ha comunque tentato di nascondere. Perché è gran cosa vedere gli dei del pallone soffrire come umani, anzi, dimostrarsi umani, perché vuol dire che sono gente come noi, persone, prima che atleti, attaccate ai colori, al club, ma soprattutto a certi momenti della vita che sappiamo bene non torneranno più.
Dall’altra parte, però, ecco l’esercito di coloro che in quell’esternare sentimenti hanno invece colto un aspetto sgradevole, una nota stonata. Come certi applausi ai funerali che non si capisce mai perché diavolo si debba applaudire all’uscita dalla chiesa. Una sensazione di sgradevolezza probabilmente resa più intensa - e sicuramente condizionata - da tutto quel non bene che si pensa ultimamente dei calciatori e parliamo di scommesse e brogli e certe furberie firmate da una categoria di talentuosi privilegiati.
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