Tra meno di una settimana parte la Champions league, l'evento più atteso dall'Europa che ama il calcio e non solo. Si preparano i fuochi d'artificio, si affilano le lame più famose e si riempiono gli stadi ma dietro il grande business si cela il peccato originale che di fatto deprime i potenziali investitori e fotografa puntualmente la classifica dei fatturarti paralizzando l'ingresso di nuovi azionisti. Per questo motivo dal calcio italiano sta per partire la crociata per sconfiggere il nuovo nemico che si chiama financial fair play. La storia è nota. Lo volle nel 2010 Michel Platini, presidente dell'Uefa, divenenne operativo 5 anni dopo e lo presentò con una frase che ne è la contraddizione più clamorosa. Eccola qui di seguito: «Se i club pagano i debiti, non ho nessun problema. Non sono contro i debiti, sono contro le perdite». A spiegare il tratto illiberale delle regole e a incarnare lo spirito della contro-riforma è il prof. Leandro Cantamessa Arpinati, docente di diritto sportivo all'università Statale di Milano, consulente storico del Milan di Berlusconi, attraverso il figlio Lorenzo di quello attuale e ora componente del cda del Monza. «Da sempre sono contro i sistemi etici, perciò ho preso a cuore questa battaglia che ha profonde radici in raffinate questioni legali», è la premessa di Cantamessa.
Scusi avvocato, cosa intende per questioni legali?
«Provo a semplificare. I dichiarati obiettivi del FFP sono i seguenti: 1) migliorare la struttura dei club; 2) proteggere i creditori; 3) razionalizzare le spese; 4) incoraggiare i club a operare con le sole proprie risorse che tradotto vuol dire pareggio di bilancio; 5) proteggere la sostenibilità nel lungo periodo; 6) ottenere l'equilibrio competitivo. Sa cosa vuol dire quest'ultimo parametro? Vuol dire che l'Uefa invece di guardare in su ha guardato in giù paralizzando ogni tentativo, legittimo come suggerisce il diritto di proprietà, di scalare la classifica europea da parte di nuovi protagonisti».
Cosa non va in questi 6 comandamenti?
«Tali regole, emesse da una associazione di imprese, l'Uefa appunto, sono in aperto conflitto con il principio di non discriminazione da una parte e con la tutela del diritto di proprietà dall'altra, previsto dall'articolo 17 della carta dei diritti fondamentali dell'UE. Nessuno può limitare questo diritto se non la legge di uno stato e l'Uefa non è uno stato».
Chiudiamo i codici e andiamo sul concreto...
«Prima osservazione: impedire il mecenatismo significa negare il diritto di proprietà. Se il proprietario del club onora, col suo patrimonio, i debiti sanando le perdite, proteggendo i creditori, il fisco e gli altri club, ha di fatto assolto a tutti i suoi doveri».
La sua crociata fa per caso riferimento al fatto che da sempre in Champions arrivano in fondo i club inglesi e spagnoli?
«Anche questa è una curiosa anomalia. Il calcio inglese gode di una ricchezza tutta sua. Prendiamo i club spagnoli più famosi, Real Madrid e Barcellona. Se in quei club le quote versate dagli associati finiscono nei ricavi mentre in Italia è limitato il diritto di un azionista di procedere a un aumento di capitale, si coglierà la profonda differenza e il clamoroso diverso trattamento».
In estrema sintesi qual'è il suo giudizio sul FFP?
«È partito da un virtuoso principio e ha finito col produrre un effetto contrario, depressivo».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.