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“La Coppa Campioni, Maradona e quel trucco col Benfica: vi dico cosa è davvero il Milan

Franco Baresi, soprannominato nel tempo Kaiser Franz racconta la sua grande avventura nel mondo del calcio

“La Coppa Campioni, Maradona e quel trucco col Benfica: vi dico cosa è davvero il Milan”

Lo storico capitano e libero rossonero, famoso per indossare la maglia numero 6, è rimasto ancora oggi nel cuore dei tifosi del Milan. Con lui la squadra ha vinto i massimi trofei internazionali, ma soprattutto ha espresso un calcio travolgente, elegante e dinamico, grazie anche ad allenatori del calibro di Sacchi e Capello. Nonostante i successi e la gloria Franco Baresi è rimasto lo stesso, un ragazzo che sognava il grande calcio nelle campagne di Travagliato e che ha fatto del Milan una vera e propria famiglia.

Come è stata la sua giovinezza e come ha condiviso la passione per il calcio con il fratello Beppe?

“La fortuna è che noi avevamo già da piccoli una grande passione per il calcio. A quattro, cinque anni già scorrazzavamo nel cortile del casale, poi all’oratorio. Insieme siamo cresciuti, lui è più grande di me ed è stato il mio stimolo per poi proseguire in adolescenza il mio percorso”.

Cosa pensa oggi quando ripercorre con la mente i campi dell’oratorio di Travagliato?

“Un po’ di nostalgia. È chiaro che erano momenti diversi, un’epoca lontana, parliamo degli anni ’60, dove alla fine si dava importanza anche alle piccole cose. La nostra fortuna è stata anche quella di giocare negli spazi all’aperto, liberi, crescere in libertà, e credo che ciò sia stato fondamentale anche per la mia carriera”.

Come avviene il suo arrivo al Milan?

“Tramite un provino. Andai per la prima volta a Linate (dove una volta i ragazzi del Milan si allenavano) e poi ne feci un altro a Milanello che andò bene e dove videro delle qualità. Fisicamente non ero un gigante e qualche perplessità c’era sul piano fisico. Però seppero accogliermi e darmi molta fiducia”.

Quali erano da giovane calciatore i suoi idoli calcistici?

“Sono sempre stato rossonero, già quando accendevo la radio che parlava di Rivera, Prati, Sormani… Rivera soprattutto è stato per me un punto di riferimento, mai avrei sognato di poterci giocare insieme. Fu il mio primo capitano nell’anno in cui vincemmo lo scudetto insieme”.

Come era Rivera?

“Un grande. Ho imparato molto da lui. Sapeva stare con i giovani, era attaccato alla squadra, sapeva proteggerla e anzi, metteva prima il gruppo di se stesso”.

Quando ha debuttato per la prima volta in A?

“Aprile del 1978. Non avevo ancora compiuto diciotto anni, li avrei fatti il mese dopo”.

Come si diventa un campione?

“Sicuramente il talento non basta, dietro ci deve essere l’amore per quello che fai, la passione e lo spirito di servizio. Il campione viene riconosciuto negli anni, nel percorso che fai, in quello che cerchi di dare, trasmettere, in modo da conquistare la stima del club e degli avversari”.

Come erano visti da vicino Nereo Rocco e Nils Liedholm?

“Ho esordito con in panchina due grandissime figure della nostra storia, del nostro Milan. Rocco mi aveva visto crescere a Milanello. Ricordo che la prima volta che fui convocato in prima squadra, a causa della squalifica di Turone, dopo una notte faticosa ad addormentarmi, la mattina, prima di pranzo mi venne vicino Liedholm e mi disse che avrei giocato. Poche parole: “Gioca come sai e stai tranquillo”. Il mister assieme a Nordahl e Gren aveva composto il grande trio rossonero Gre-No-Li degli anni ‘50”.

Dove nacque la sua capacità di saper leggere in anticipo le mosse degli avversari?

“Credo che sia un dono naturale, l’ho sempre avuto dentro e l’ho sviluppato poi negli anni con l’esperienza”.

Come è stato diventare capitano del Milan?

“Io sono diventato capitano a ventidue anni ed essere capitano del Milan non è semplice. Mi hanno dato tuttavia fiducia, mi hanno responsabilizzato, hanno investito in questo ruolo e magari non ero pronto ma l’ho imparato strada facendo. Nei primi anni ho cercanto dalle varie persone di carpire i segreti, ascoltare e poi ho provato a metterle in pratica”.

E l’arrivo di Silvio Berlusconi?

“Portò una grande novità ed entusiasmo, trasmettendoci quella mentalità che tutti sappiamo. L’entusiasmo di Berlusconi era contagioso e io ero fiero essendone il capitano”.

A quale trofeo è maggiormente legato?

“Ho avuto la fortuna di vincere molto, forse pensandoci la prima Coppa dei Campioni al Camp Nou di Barcellona, 24 maggio 1989 contro lo Steaua Bucarest. Il Milan l’attendeva da vent’anni e fu un’emozione particolare”.

Il giocatore più difficile che ha marcato?

“Nella mia epoca ce n’erano diversi di attaccanti. Posso dire Maradona, un campione immenso ma anche Careca, Batistuta, Baggio, Vialli, Mancini, Rossi, Graziani e Pulici”.

Il Napoli di Maradona fu una delle vostre storiche antagoniste.

“Sì, il primo maggio 1988 ad esempio andammo a giocare al San Paolo con un punto in meno e la sfida era decisiva. L’unica soluzione era vincere. E noi ci esaltammo. Palleggio, pressing alto, intensità e fuorigioco. Di Maradona mi stupì la forza con cui subiva duri colpi senza mai lamentarsi e poi fece un goal su punizione bellissimo. Alla fine comunque fu una grande vittoria che ci portò l’undicesimo scudetto”.

Il giocatore più forte con cui ha giocato nel grande Milan?

“Difficile fare un nome perché erano davvero tutti forti. Rivera ma anche gli olandesi”.

Van Basten forse è stato il più completo?

“In quegli anni sicuramente era il giocatore più forte. Lui aveva tutto, eleganza, fisicità, tecnica, acrobazia, non aveva paura, era determinato”.

In che modo si presentarono Arrigo Sacchi e Fabio Capello?

“Sono stati due allenatori importanti, diversi ma arrivati al momento giusto. Sacchi è arrivato quando la squadra aveva bisogno di un cambiamento, d’innovazione, di idee nuove, di mentalità… il Milan di Sacchi cambia completamente il calcio facendo da traino per le altre squadre. Per questo veniamo ricordati ancora dopo trent’anni, perché siamo riusciti ad emozionare. Capello è arrivato nel momento in cui la squadra aveva bisogno di un altro tipo di gestione e grazie alla sua competenza ha fatto sì che potessimo proseguire quel ciclo”.

Su Sacchi ci fu grande scetticismo, anche il grande Gianni Brera scrisse che era “un apostolo soggiogato da visioni celesti”.

“Come sappiamo portare novità nel calcio c’è sempre scetticismo. Tutti erano pronti a fucilarlo, ma anche quando arrivò Berlusconi fecero dell’ironia…”.

Nella scelta di Sacchi chi fu più decisivo nel prenderlo, Berlusconi o Galliani?

“Berlusconi che ancora una volta era riuscito a vedere lontano e aveva capito che lui era l’uomo per praticare un calcio che il presidente desiderava”.

Natale Bianchedi lo storico osservatore del Milan sacchiano si camuffava per infiltrarsi negli allenamenti avversari…

“È una storia divertente. Lui poi è un grande conoscitore di calcio, un uomo colto, ironico. Una volta si era travestito per assistere agli allenamenti del Benfica a porte chiuse e scoprì che si stavano preparando per contrastare il nostro sistema di gioco per metterli in fuorigioco”.

Cosa si prova ad alzare una Coppa dei Campioni?

“È un peso che allevia i sacrifici fatti e ti fa ripensare a tutta l’annata, alle partite, agli allenamenti, alla stagione intera…”.

Come sono vissute le notti prima di queste partite?

“In quegli anni ricordo che noi eravamo “tranquilli”, perché comunque quando ti prepari, quando sei attento, quando sei convinto delle cose che vai a fare sei anche ottimista. La tensione però è normale che ci sia”.

Ha qualche rimpianto della sua lunga e straordinaria carriera?

“Non ho rimpianti, avrei potuto vincere di più ma avrei potuto anche vincere meno”.

La sua maglia nel 1997 è stata ritirata da parte del Milan. La celebre numero 6.

“Fu il primo caso in Italia e devo ringraziare la società e il presidente Berlusconi per il grande riconoscimento. La fascia di capitano invece la cedetti a Paolo Maldini”.

Cosa ricorda quando pensa all’infortunio di USA ’94?

“Credo che sia una cosa irripetibile che uno si faccia male al ginocchio, venga operato e alla fine possa giocare la finale in un mondiale”.

Lei è molto attento anche alle tematiche sociali, in cosa consiste il progetto “values”?

“Si tratta di un progetto composto da sette opere digitali rappresentanti i valori che mi hanno accompagnato nella mia vita di uomo e sportivo”.

Si sente ancora un “libero”?

“Ho sempre cercato di essere me stesso in un mondo che cerca continuamente di cambiarti”.

Cosa rappresenta per Lei il Milan?

“Più di una famiglia”.

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