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Ghiggia, il baffo da gigolò che fece piangere il Brasile

Fu l'autore del gol che provocò il «Maracanazo» mondiale Giocò a Roma tra dolce vita, scandali e colpi d'autore

di Tony Damascelli

Il teatro del football ha spento una luce, sessantacinque anni dopo il gol più silenzioso della propria storia. Alcides Edgardo Ghiggia ha concesso l'ultima fotografia a una infermiera del pronto soccorso di Montevideo, una saetta al cuore lo aveva ormai messo fuori dal gioco e da questo povero mondo. Se ne va una fetta di gloria non soltanto sudamericana, se ne va un pezzo di calcio fatto di lacrime e passione, milonga di giorni lontani. «Tre uomini soltanto riuscirono a zittire il Maracanà di Rio de Janeiro, Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo e io», la sua frase di superbia fu l'ultimo marameo ai brasileri che erano arrivati in duecentomila a riempire il loro teatro del fucibol , sarebbe bastato un pareggio, secondo il regolamento di quel mondiale, per consegnare la coppa Rimet ai verdeoro.

Così stavano le cose quando arrivò il minuto settantanove e la voce affannata ed eccitata di Duilio de Feo, radiocronista uruguagio, così descrisse il momento: « Da Ghiggia a Julio Perez, da Julio Perez a Ghiggia e Ghiggia saca ventaja (supera ) al marcador Bigode, entra al area buscando el tiro, tiro GOOOL, GOOOL uruguagio! " la voce di De Feo era la sola urlante nello stadio di ghiaccio, duecentomila attoniti, increduli, stremati, sconfitti, pronti al suicidio. I due baffetti più veloci del sudamerica entrarono nella storia, poi nella leggenda.

Le terra triste attorno a Montevideo si risvegliò folle di gioia, Schiaffino e Ghiggia eroi di un mondiale e di due mondi, emigranti in Europa, oriundi italiani secondo usi e costumi di sempre, Roma e Milan, Milan e Roma. Alcides aveva imparato a dribblare scartando, nel cortile di casa, il cane di suo zio. Non aveva il fisico di un atleta, nonostante l'altezza modesta provò con la pallacanestro ma intuì che il football sarebbe stata la soluzione migliore anche se suo padre lo ammoniva di continuo: «O diventi qualcuno o trovati un lavoro». Alcides diventò qualcuno con il Peñarol e la Celeste prima di perdere la testa, con femmine e arbitri.

Il viso era asciutto, quasi incavato, i baffetti da gigolò di balera, il torace tozzo, le cosce toste, la velocità impressionante come il dribbling. Era puntero, attaccante, ala, uomo di gol e di passaggi, detti poi assist. Nel momento d'oro della carriera, a 24 anni, prese a pugni un arbitro e la federazione uruguagia lo sospese per quindici mesi. Non se ne dannò, partì per l'Italia, lo prese la Roma e venne presentato come il secondo Alcide più illustre della capitale, dopo De Gasperi. Scoprì la dolce vita, si chiamavano tabarin, champagne e altri servizi, lui giaceva una notte qui l'altra altrove, tre mogli, molte tifose a gettone, auto sportive, l'Alfa Romeo fu la preferita, correva, con il capello nero unto di brillantina, a cento all'ora verso il mare di Ostia, andava in via Veneto con Gassman, Chiari e la Lollobrigida, era la sua Cinecittà personale, con la Roma sapeva che fare, gol e una coppa delle Fiere ma prima di abbandonarla anche storie acide per atti osceni con una minorenne che a lui si era data per passione calcistica, si potrebbe dire. Ci fu denuncia, tribunale e Ghiggia se ne andò al Nord, al Milan, uno scudetto giocando poco ma bene, comunque lasciando memorie e nostalgie.

Gli italiani se ne ricordarono premiandolo con il Golden Foot che lui provvide a rivendersi per far su la casa a Las Piedras. Ripensò alle parole del padre, dunque si trovò un lavoro, croupier al casino di Montevideo. Là ebbi la fortuna di incontrarlo in occasione del Mundialito per nazioni del 1980. Un collega del Corriere dello Sport , frequentatore di roulette dovunque e cronista illustre dell'uruguagio ai tempi romanisti, lo abbracciò dopo anni di silenzio. Alcides capì quale sarebbe stato lo scopo di tanto affetto. «Te prometto distintivi e portachiavi della nazionale, ma famme uscì il 17», implorò il monumentale collega del Corsport esponendo la merce. Ghiggia si lisciò il baffo, mostrando appena un sorriso, di compassione, dribblò il marcatore come fece con Bigode, ma non "buscò il tiro", dunque il gol. Evitò distintivi e portachiavi, si infilò, velocemente ma in silenzio, in un'altra sala fumosa. La roulette smise di pirlare, la pallina si fermò sul 17. Alcides Edgardo non riapparve più quella notte.

Come in quest'ultima.

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