Gioia o vergogna, i Giochi nel nome del figlio

Lo sport distorce tutto e mostra padri e madri che vivono al quadrato le emozioni dei propri ragazzi sovente addossandosi le loro colpe

Gioia o vergogna, i Giochi nel nome del figlio

Un padre deve sapere. Josef Schwazer si dev’essere bat­tuto il petto: «Per mia colpa, mia colpa,mia grandissima colpa».Di­ce una cosa enorme, il papà di Alex Schwazer. Dice che se il figlio s’è dopato, la responsabilità è sua. Non del ragazzo. Sua, del padre.
«Dovevo stargli vicino, dovevo ca­pire. Se l’ha fatto vuol dire che era dispe­rato e un papà non può non capire che cosa stia accadendo». Nel nome del figlio. Josef è la storia dell’umanità. Perché risponde alla
domanda che si fa ogni genito­re con un figlio che sbaglia. Ar­riva un momento, quel mo­mento: «Dove ho sbagliato? È colpa mia?». Lui dice di sì. Non è vero, ma ci crede. Assolve il fi­glio e condanna se stesso. Sa che c’è l’altra metà della rispo­sta. Cinquanta e cinquanta. La seconda è questa: non puoi evitare i guai anche se ti impegni all’infinito, non puoi parare ogni colpo, non puoi proteggere il tuo bambino, specie se ha 28 anni. Poteva dire: «È stato un cretino». Ha detto: «È colpa mia». Non ci so­no certezze con i figli. È un tormen­to che non finisce mai. Josef Schwazer è un simbolo.Apre l’om­brello per riparare dalla pioggia: vieni qui, figlio mio, che così non ti bagni. È la faccia che precede quel­la di Alex. È l’istinto, qualcosa di atavico, irrefrenabile, ingestibile. Sembra dire: non picchiate su di lui, prendetevela con me. Suo fi­glio ha sbagliato, suo figlio s’è rovi­nato. Ma è suo figlio, non degli al­tri. Suo. Che volete? Lui lo cono­sce, ma lui avrebbe dovuto cono­scerlo meglio. Così dice e non sen­te la ragione che gli dovrebbe dire: non potevi farci proprio niente, tu non c’entri, ha sbagliato lui. Non si può giudicare un uomo così.
Lo sport distorce tutto: amplifi­ca, compatta, gonfia. Mostra pa­dri e madri che vivono al quadrato le emozioni dei figli. Più felici di lo­ro se vincono, più tristi di loro se falliscono. Sono gli stessi che il giorno della laurea sembra che ab­biano studiato loro. Sono gli stessi che se arriva la bocciatura sembra che siano stati loro gli incapaci.
Cambia la visibilità, non la sostan­za. Anche questi non li vedi, non li conosci, poi una notizia li rende personaggi. Questi sono i giorni dei genitori olimpici: vite vissute per i loro bambini adulti. Josef Schwazer è il volto infelice. Più di­spiaciuto di Alex, più devastato di lui. Il marciatore piange in tv e suo padre si ribatte ancora il petto. Per­ché quella domanda a cui rispon­de dandosi la colpa, sarà la sua dannazione per molto tempo. Co­me ho fatto a non capire? È la stes­sa che si fa il padre di un figlio dro­gato, di uno che si butta via per nul­la, di uno che si autodistrugge. Do­vevo stargli più vicino, dicono. Poi gli stanno vicino e succede lo stes­so, allora dicono: gli sono stato troppo vicino, non l’ho fatto vive­re. Vale tutto. È un giro di roulette. Che fai, giudichi? E se capita a te? Non si può. Ci vuole coraggio a fa­re quell­o che ha fatto lui ed è lo stes­so coraggio che ha chi dice: mio fi­glio è un cretino, ha sbagliato tut­to da solo e deve pagarla cara.
Il papà del marciatore dopato è la controcopertina dei suoi simili felici.Ce ne sono qui a Londra.C’è il Burt Le Clos, il padre di Chad, il nuotatore sudafricano che ha bat­tuto Michael Phelps nei duecento farfalla.Burt è l’uomo che scoppia di felicità quando il figlio tocca la vasca. Corre nel corridoio della pi­scina, rubizzo, con la pancia che gli esce dalla maglietta, con gli oc­chi che parlano: quello è mio fi­glio, quello è mio figlio. Capito? Quello è mio figlio e ha vinto. Le Clos senior vive in acqua con Chad: lo spinge a ogni bracciata, lo vuole trascinare con i suoi 120 chili, conta le bracciate che danno il ritmo della gara del figlio. Le im­magini esagerate di questo signo­re che non resiste e si lascia anda­re alla gioia più sfrenata che ci sia possono indignare i puristi, ma non sconvolgono un solo genito­re. Perché il linguaggio di quel cor­po sarà anche esagerato, ma è con­divisibile nella logica che lo spin­ge: un padre non lo fermi. Una madre neanche. Guar­da Debbie Phelps, la madre di Mi­chael:
da vent’anni segue il figlio in vasca. Ce l’ha buttato lei, lì den­tro. E adesso piega la testa sulla ba­laustra della piscina di Londra quando il suo bambino prende la ventiduesima medaglia della sto­ria. Giù il capo, sfinita, al capoli­nea di un pezzo di vita: Phelps si ri­tirerà e lei pure. Quante ce ne so­no come lei? Hanno allevato i figli da sole e li hanno portati da qual­che parte. Non è che devi essere lo sportivo più vincente delle Olim­piadi per inorgoglire tua madre. Lei è soltanto il riassunto di altre vi­te e di altre emozioni. Lo sport è l’amplificatore delle anime. Quanti ce ne sono come il papà di Daniele Molmenti che per la ten­sione non vede la gara del figlio e va a raccogliere le more? Il kayak è soltanto una metafora che può leg­gere tutt’altro: un esame, una visita dal medi­co. Il genitore che fa finta di niente perché non sa come ge­stire quel mo­mento. Fosse la sua vita sa­rebbe lì a petto in fuori. Ma è la vita del figlio, quella. Ed è di più. I bambini crescono solo d’aspetto. Sempre. Si è genitori per sempre, an­che quando tuo figlio ha la forza di risol­verti i proble­mi. Come Ryan Locthe che prenderà il suo premio olimpi­co per pagare le rate arretrate del mutuo dei genitori che stanno per es­sere sfrattati. Come la ginnasta Usa, Gabby Douglas: a 16 anni con i contratti pubblicitari dopo l’oro di Londra può ripagare i debiti di sua madre che ha lasciato il lavoro­ e vive con l’assegno di mantenimento per andare a seguire Gabby e gli altr tre figli che per allenar­si sono dovuti andare in Iowa. For­se ha sbagliato, forse no.
Forse, forse, sempre forse. Ci possono essere solo dubbi. Chi ha la verità, in casi come questi, poi si ritrova smarrito dalla vita. Alle do­mande degli altri si risponde. Il guaio è quando ti ritrovi solo a do­verti dare una risposta. È come il si­gnor Schwazer: qualunque cosa dica merita rispetto.

Si prende col­pe che formalmente non ha. Ma è l’unico che può dirlo, l’unico che può esprimere un giudizio. Un fi­glio che cade puoi solo aiutarlo a farlo rialzare. Il problema è come si fa.

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