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Heysel, la tragedia immane che da 30 anni nutre gli idioti

Nella finale di Coppa Campioni morirono schiacciati dagli hooligans 39 tifosi della Juve. Da quel giorno gli ultrà delle curve ne insultano spesso la memoria nei loro beceri cori

Heysel, la tragedia immane che da 30 anni nutre gli idioti

Pagine mille e mille racconti, mille le memorie, mille i fotogrammi. Tutti per una notte sola, quella notte maledetta che tutti vorremmo cancellare, come un incubo che ti segue e insegue e dal quale non riesci e non puoi liberarti. Perché il cimitero dell'Heysel non ha fiori, non ha tombe, non ha sepolcri ma resta un luogo che ha voluto cambiare il nome per la vergogna, nel tentativo vigliacco di fuggire alla verità. Lo hanno chiamato Baldovino, un re, pure lui scomparso ma otto anni dopo, per un colpo al cuore.

Il regno del Belgio, quella notte di maggio, non aveva castelli e fiabe ma soltanto un antro di voci urlanti e di lacrime, di strazio. Il football? Che cosa c'entrava e che cosa può c'entrare il gioco del pallone? Perché si può e si deve morire per una partita di calcio?

L'elenco dei morti, trentanove, è un colpo di frusta sul nostro corpo di vivi e sopravvissuti, Z è l'ultima lettera dell'alfabeto, fu l'ultimo respiro per quella macchia bianca e nera che aveva pagato cinquantamila lire un biglietto per stare in piedi, ammassato, compresso, in curva. Ma c'era la Juventus, c'era la finale, c'era il sogno di sempre e altre partite avevano visto le stesse immagini, come a Basilea l'anno primo, sempre una finale, di coppa delle coppe, sempre curve e gradinate di folla ma la sfida era contro il Porto. I portoghesi e non gli inglesi, nessun hooligano, nessuna lama di coltello o mazza di ferro a picchiare contro la speranza e la passione, soltanto il tifo, la gioia e la sofferenza.

Il paese piatto di Jacques Brel quella sera a Bruxelles era tragicamente vero e grigio, «où des diables en pierre décrochent des nuages» , gli angeli in pietra presero a precipitare non dalle nuvole ma dal settore Y, era un branco di lupi decisi a vendicare le botte di Roma, buscate l'anno prima, negli scontri della finale contro la squadra di Falcao.

Accadde, dunque, quello che tutti non vorremmo più rivedere, rileggere, riascoltare, la morte arrivò e qualcuno ebbe anche il tempo e la sensazione di intuirla, di sentirne l'odore fetido, il suo colore buio, bambini e adulti, gente di ogni terra, mentre, improvviso, fu il fragore cupo di mattoni che si sbriciolavano e un muro che crollava, lo schianto di vite ormai disperate, soffocate. Uno, due, tre, aumenta la conta tremenda, aumentavano i corpi fermi, giacenti, senza respiro, gli occhi fuori dalle orbite, altri spenti. E sangue. Lo stadio intorno, la partita da giocare perché quelli dell'Uefa non avevano spazio, tempo, testa, cuore per capire, scegliere, decidere. L'alveare era ormai impazzito, poliziotti e medici, giornalisti e calciatori, gendarmi e cavalli, manganelli e infermieri, onde di un mare nerissimo.

Juventus e Liverpool giocarono infine la partita, segnò Michel Platini, su un calcio di rigore inesistente che l'arbitro André Daina, svizzero, concesse forse per rimediare al dramma dei tifosi juventini morti, di cui lui, come tutta l'Uefa, sapeva. Platini festeggiò con il braccio alzato come un fantasma di un altro pianeta. «Quando l'acrobata cade entrano i clowns». Furono le sue parole, incomprese e sfruttate. Finita la partita prese coscienza della tragedia e del proprio errore, fu la "sua" morte professionale, fu l'inizio di pensieri diversi che lo indussero a non ritornare più all'Heysel, in quella terra, in quella città, con il fastidio di un peccato commesso, di un'offesa alla memoria di chi era venuto in quel luogo per vedere giocare proprio lui, Michel Platini, le roi , per fare festa e convivere una notte di gioia. Fu l'inizio del suo pensiero al ritiro anticipato dalla carriera. La coppa venne deposta davanti a quella curva abbandonata dal mondo.

Trent'anni sono un tempo lunghissimo e, assieme, breve, ferocemente breve quando il ricordo è così aspro, quando la memoria va alla morte, al dolore che non può avere spiegazione.

Trent'anni non sono ancora serviti alla ciurma di idioti, detti tifosi ma meglio sarebbe dire e scrivere jene, che di quei morti non hanno ricordo se non per l'insulto, lo sberleffo, il ghigno nelle loro curve di falsa passione, discariche di menti drogate.

Il calcio cerca di correre più veloce della vita e non riesce a fermarsi, per riflettere, per rispettare il silenzio di chi non c'è più. E che, per lui, soltanto per lui, ha finito la propria esistenza, in una sera di maggio.

Oggi troverà appena il tempo per la commozione.

Domani tornerà a urlare il proprio volgare disprezzo.

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