"Io, il Moser che tifa Saronni. Avrei voluto correre come lui"

Ex ciclista, Moreno Moser, il nipote del grande Francesco svela la sua passione per il rivale giurato dello zio: "Mi ispiravo a lui"

"Io, il Moser che tifa Saronni. Avrei voluto correre come lui"
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C'è un Moser che voleva essere Saronni. Un Moser che ha corso per sette anni tra i professionisti e ha vinto 7 corse, tra le quali due Laigueglia, un Giro di Polonia, un Gp di Francoforte e la Strade Bianche. Anche lui fa parte della grande dinastia dei Moser e di nome fa Moreno, figlio di Diego, anch'esso professionista, fratello del ben più noto Francesco: lo zio. Moreno Moser oggi è un giovane uomo di 34 anni, che si è laureato a Milano allo IED - Istituto Europeo di Design - e lavora nell'ambito della comunicazione e delle arti visive, oltre ad essere da qualche anno voce tecnica di Eurosport, al fianco del duo Gregorio-Magrini.

Orgoglioso di essere un Moser?

"Chiaramente sì, anche se il merito è tutto dello zio".

Ha mai parlato con suo zio di Saronni?

"Molto poco, quasi niente. Non ama parlare di quello là, come ama apostrofarlo generalmente lui. Sa una cosa?... Io volevo essere come Saronni. Mi sono sempre sentito molto più vicino a Beppe come atleta. Io ho ancora negli occhi la fucilata di Goodwood, non la vittoria dello zio a San Cristobal. Quel tipo di fucilata mi ha sempre ispirato e in qualche occasione ho cercato di emularla anch'io. Certo, le mie erano sparatine, ma le ho fatte anch'io: non certo a quel livello".

Pogacar dominatore assoluto: c'è chi lo ama e chi non lo sopporta. Lei quando parte Taddeo spegne il televisore o lo tiene acceso?

"La discussione è legittima e mi piace un sacco, ma io sono dalla parte di chi lo tiene acceso. Qualche anno fa c'erano discussioni molto più cupe, oggi finalmente si parla solo di ciclismo. Di grande ciclismo".

Se noi togliessimo Pogacar, almeno in questo finale di stagione Evenepoel avrebbe vinto tutto.

"È così. Taddeo sembra che non abbia rivali perché è troppo più forte. Ma anche il primo dei battuti è di un altro pianeta: la musica cambierebbe di poco".

Questo è un ciclismo di grandi campioni, che semplifica tutto: c'è un ciclismo che aiuta la memoria. Vincono i soliti.

"È facile ricordarseli: è vero. E io apprezzo di più quando le sfide sono chiuse a pochi. Ci sono state stagioni nelle quali vincevano in trenta e nessuno si ricordava chi avesse vinto e cosa. Con questi cinque/sei fenomeni tutti si ricordano delle loro gesta e di quello che hanno vinto. Nel tennis, dopo Federer, Nadal e Djokovic, siamo passati a Alcaraz e Sinner: vincono solo loro. Io sono sempre dalla parte dei grandi campioni. Sono per lo sport di eccellenza. Pensi che quest'anno ho criticato Pogacar nell'ultima settimana di Tour, quando si è limitato a controllare. A me piace quando stravince".

Perché la piccola parrocchia del ciclismo, come amava definire la famiglia del ciclismo Mario Fossati, ha sempre da ridire su questi fenomeni del pedale: non sono mai contenti. E, rispetto al grande pubblico generalista che si è invece riavvicinato al ciclismo, ha sempre da storcere il naso?

"Forse perché non ci basta mai. Ci lamentavamo quando vinceva Froome, perché andava troppo forte, ma le sue prestazioni erano computerizzate e di una noia pazzesca. Pogacar, Van der Poel e Evenepoel non corrono solo per vincere, ma per divertirci. E il grande pubblico apprezza, basta vedere quanta gente c'era sulle strade del Lombardia, i cosiddetti intenditori, la piccola parrocchia del ciclismo come ha detto lei, critica perché pensa di essere più colta e preparata, intelligente ed elitaria. Non vuole stare con il gruppo: quello del popolo, degli appassionati".

Che cosa non le piace?

"Questi campioni meriterebbero ancora di più, ancora più seguito e attenzioni, ma è il ciclismo il vero problema del ciclismo".

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