dal nostro inviato ad Appiano Gentile
Occhio da cerbiatto e sorriso aperto al mondo. Difficile staccarsi dalla prima impressione. Sì, poi c'è il codino che strappa l'attenzione. Guardi le mani. Attraggono perchè segnalano l'impaccio di un ragazzo timido, poi raccontano che l'impaccio lascia posto alla sicurezza, danno forza al suo parlare. Curioso guardare le mani di uno che deve soprattutto usare i piedi. Ma sembrano dita da pianista. Eppure Alvaro (come Recoba e forse una ragione c'è) nonchè Daniel, eppoi Pereira Barragan, anni 27, uruguayano ormai cittadino del mondo, è un uomo votato al calcio operaio, nobile faticare per lasciare agli altri il palcoscenico.
É una delle facce nuove dell'Inter, arrivato per non staccarsi dalla famosa vita da mediano. Ti fa notare di essere stato l'unico acquisto venuto dall'estero. Dunque quanta fatica per ambientarsi, parlare lo stesso calcio. «E' stato tutto eccellente e fantastico, ma per me più difficile che per gli altri venuti da Genova o da Napoli». É la risposta a una obbiezione: Pereira poteva fare di più e di meglio? Soggiunge: «Lavoro per la squadra, non perchè il mondo parli di me. Se pensi solo a te stesso non arrivi molto lontano. Quando uno sbaglia deve fare autocritica e capirlo da solo».
Uruguayano. E come tutti i bambini uruguayani sempre con il pallone tra i piedi. «Mio papà aveva un negozio di alimentari, ma da calciatore dilettante era un difensore centrale». Lui ci ha provato a 14-15 anni, il fratello lo aveva soprannominato Palito. «Ero magro. Anzichè Alvarito, è venuto fuori Palito: palo magro». Bambino che si incantava davanti al calcio fantasia a dispetto di quel che gli avrebbe riservato il futuro: «Ho cominciato nel Miramar Misiones: terzino allora e terzino oggi». Come tutti conosce la storia calcistica e gloriosa del paese, ma nella classifica degli idoli non si scosta dal mondo d'oggi. Dice: Ruben Sosa, Recoba, Francescoli. «A me piacciono i trequartisti, quelli del calcio più vistoso, amo la classe del calciatore». E poco gli importa di essere un terzino faticatore: «Nella vita e sul campo ciascuno di noi è destinato a ruoli diversi». Davanti al trasecolare: Recoba prima di tanti altri? Spiega: «Era un fenomeno, calcia come pochi. Da Recoba ho visto il più bel gol della mia vita: nello stadio Centenario, giocava con la nazionale. Prima di venire all'Inter». Ti parla anche di Francescoli e lo immortala con un tocco estetico. «É Milito vecchio».
Filosofo nella testa. Essenziale nei piedi. Alvaro ha girato l'Europa, dopo aver giocato anche in Argentina. «In Romania ho preso contatto con il calcio europeo. Al Porto ho vinto tanto: sono cresciuto come calciatore e come persona. Qui all'Inter sogno di vincere tanto e di entrare nella sua storia. Ma il campionato portoghese non è tanto equilibrato come quello italiano. Qui è tatticamente diverso: nelle squadre è più diffusa la qualità tecnica». Sintesi essenziale per una vita da calciatore. Tra alti e bassi. Oggi l'Inter tende al basso. «Ma è come quando vai ko nella boxe. Non c'è tempo per pensare: devi rialzarti e tornare a combattere». Scopre un'altra passione. «Oh, certo, la boxe». Muove mani e pugni e ti riporta alla sua idea di sport. «Mi piace Tyson, ma sul ring preferisco l'intelligenza di Floyd Mayweather. Fuori del quadrato combina casino, ma dentro è uno spettacolo».
Una vita da mediano incantata dallo sport formato champagne. Ed allora, quando pensa al pallone d'oro, ha un solo favorito: «Messi». E non accetta alternative: Iniesta, Cristiano Ronaldo. «Messi ha segnato 91 gol in un anno, cosa c'è di meglio?». Al mondo, dopo di lui, vede «Iniesta e Suarez». All'Inter gli piace Alvarez. Sempre per quel pallino del calcio fantasia. «É un trequartista, ha qualità. Dovete capirmi: io sono un giocatore che lotta e corre. Ma nel pallone fanno colpo le giocate di classe».
Ideale per tenere piedi a terra l'Inter storicamente sprecona. Vincerete qualcosa, dice la domanda banale. E lui ti inchioda:_«Lavoriamo per questo. Ma non so cosa: risponderò a maggio». Racconta che porta il numero 31 sulla maglia per una storia di famiglia. «Ma non la voglio raccontare». Invece il codino è nato in Portogallo. «Tanti giocatori africani portavano la coda di cavallo. Io avevo i capelli corti, me li sono fatti crescere. Ma, poi, perdevo tropo tempo per lavarli e pettinarli. E allora mi sono fatto il codino: più pratico». Promette: «Se vinciamo lo scudetto, lo taglio». Tutto per la squadra, altruismo al potere. Come dire: Dio, patria e famiglia. Oggi la patria è l'Inter. Ma per un sudamericano la maglia della nazionale è sacra.
Dove sentirsi più importante? Alvaro ricorda una massima di vita. «Noi pensiamo di essere importanti, ma poi finiamo tutti nello stesso posto». E allora... «L'Inter mi sta nel cuore: ha avuto fiducia. Per me l'Inter è un grande premio. Un grande sogno che chiedo di vivere».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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