Ci ha lasciato William Felton Russell, detto Bill, (nella foto), nato 88 anni fa a Monroe, Louisiana, mito globale e non soltanto del basket. Per lui abbiamo delirato, con lui abbiamo capito cosa ci piaceva davvero dello sport di squadra.
Ci ha lasciato dall'isola dei mercenari che lui disprezzava, l'uomo che ha vinto di più nel grande basket, 11 titoli, da giocatore e allenatore, il primo fra i non bianchi, con la maglia dei Boston Celtics, l'unica che ha mai indossato.
Ci siamo innamorati del basket, pur avendo un padre impegnato nel Milan che cercava uno scudetto dopo tanti anni, arrivò nel 1951 con il Grenoli dell'ungherese poliglotta Lajos Czeyzler, proprio per il Simmenthal di Rubini e Bogoncelli e i Boston Celtics di rosso Auerbach che aveva portato nella NBA i primi afroamericani e aveva scelto Bill, dopo il rivoluzionario regista Bob Cousy, per il suo modo di vivere il gioco di squadra. Forza, intelligenza in questo ragazzo che a San Francisco aveva dato gloria universitaria, il pivot strano che diede agli americani il titolo olimpico nel 1956 a Melbourne.
Gli diede le chiavi della gloria, insieme vinsero titoli a catena: 11 per Bill, come giocatore e anche come allenatore, il primo dei non bianchi, 8 consecutivi. Un viaggio, una scoperta perché il campione non voleva vetrina per se stesso, ma soltanto per la squadra. Quando Boston ritirò la sua maglia numero sei chiese che si facesse in maniera privata. Odiava la mistificazione del campione. Aiutava, difendeva, segnava abbastanza, per lui la lega universitaria allargò l'area dei tre secondi dove faceva strage. Non sopportava il rito degli autografi che avvelenava tutto e nascondeva la verità. Magari ce ne fosse uno, fra i campioni di oggi, capace di pensarla alla stessa maniera, ma si troverebbe contro le squadre di chi cura le immagini dei campioni moderni, quelli che giurano fedeltà ad una maglia, ai tifosi e e il giorno dopo firmano un contratto con chi offre di più, salvo tornare indietro ammettendo che sentivano a casa soltanto dove adesso si sentono mati figlioli non tanto prodighi.
Una vita, quella di Russell, considerato il più grande nella storia della NBA, così come il rosso Aurbeach è diventato il migliore allenatore, nel 1980, nella lega professionistica dove l'eredità fu raccolta dal campagnolo Larry Bird. Lui come Russell considerava la squadra più importante di ogni altra cosa, un figlio bianco per un papa nero che nella battaglia aveva sfidato tutti, anche i razzisti del Kentucky che prima di una partita con Saint Louis, rinunciando alla sfida per tornarsene a casa visto che al ristorante non avevano servito il pranzo a lui ai suoi fratelli neri, oltre ai bianchi.
In Italia venne nel 2006 per la presentazione del campionato e Mike D'Antoni si inginocchiò ai suoi piedi. Esiste una grande foto mitica dove Bill e Karim Abdul Jabbar fanno sembrare piccolo persino un gigante come Cassius Clay.
Il mondo gli ha voluto bene, l'America, ai tempi di Obama, nel 2011 gli diede la medaglia della Libertà per il suo impegno nella lotta per i diritti civili.
Il senso del gruppo, l'idea dell'aiuto, la sua forza. Non è stato il più bello da vedere nel suo ruolo, ma di sicuro un giocatore come lui ci dice, ancora oggi, cosa vuol dire vivere e giocare per una maglia, una squadra, pensando agli altri prima che a se stessi.
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