La Liegi è un altro flop Italia senza monumenti

Bisognerà farsene una ragione: nelle corse di un giorno siamo i signor nessuno. Noi, l'Italia dei Moser e degli Argentin, giusto per fare due nomi a caso nella lunga lista degli specialisti, non vinciamo una gara-monumento da cinque anni. Questa definizione, corsa-monumento, non è sparata a caso: è la federazione mondiale a chiamare così, con sacro rispetto, cinque soli appuntamenti in un calendario mostruosamente denso. Nella densità, si sono voluti puntare i riflettori per far brillare Milano-Sanremo, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix, Liegi-Bastogne-Liegi, Giro di Lombardia. Cioè la storia, cioè la leggenda.
Ecco, fermandoci in questa aristocratica galleria di sfide mondiali, il nostro ultimo successo resta quello di Cunego nel Lombardia 2008. Anche la Liegi 2013, ultima possibilità del ciclo nordico, ci sfugge come le altre. Buoni piazzamenti (5° Scarponi, 6° Gasparotto), ma solo ruoli secondari. I giochi veri per la vittoria, sull'ascesa finale di Ansa, vedono il grande assalto del talento irlandese Daniel Martin, bravissimo a staccare uno specialista come Rodriguez e a chiudere con qualche metro di vantaggio. Alle loro spalle, Valverde e Betancur. Battutissimo il favorito di casa, l'iridato Gilbert, quest'anno inesorabilmente vittima della maledizione che colpisce sempre i campioni del mondo.
I nostri, solo benino. Nibali, che l'anno scorso aveva sfiorato il successo, stavolta paga gli sforzi del recente Trentino, vinto con impresa soltanto venerdì, e nel finale non regge gli scatti violenti degli specialisti. Bravo comunque a trasformarsi subito in gregario del compagno Gasparotto, più adatto allo sprint, anche se l'inseguimento non arriva a chiudere sui primissimi.
Il resto è mestizia. Le corse in linea per noi sono un tabù insuperabile. La linea è una sbarra. I giovani e potenziali campioni di domani appaiono ancora molto lontani dal primo livello: al momento, sono campioni del dopodomani. Moser, nipote che porta un certo cognome, così come Ulissi, ogni tanto appare in testa, ma sono comparsate momentanee e secondarie: quando il gioco si fa duro, loro non sono ancora tra i duri.
E allora bisognerà rassegnarsi alla sincera e spietata autoanalisi. Mentre il ciclismo praticato dalla gente comune vive un clamoroso boom di diffusione, il ciclismo professionale e agonistico versa in stato semicomatoso. La crisi economica ci gioca pesantemente: ormai le squadre della serie A sono due, Lampre e Cannondale, ma entrambe ormai sono già mezze comprate dagli stranieri, rispettivamente coreani e americani.
I nostri tecnici, i nostri sistemi, il nostro know-how vanno alla grande, squadre di tutto il mondo ce li prendono e ci li copiano, ma l'emorragia di idee e di persone finisce per lasciare sul campo un corpaccione debole e svuotato.
Non è certo la prima volta che il ciclismo italiano vive una stagione di letargo, ma stavolta la sensazione netta è che si debba parlare di declino.
Serviranno investimenti nuovi e un massiccio lavoro dal basso per riemergere. Purtroppo, parlare di investimenti in questo periodo ha più il sapore dell'utopia che della concreta speranza.


Forse si fa prima ad aspettare che le mamme italiane, prima o poi, tornino a scodellare ciclisti di talento, come ne nascono ogni tanto, come ne nascevano sempre nelle generazioni passate. Nell'attesa, appuntamento a sabato 4 maggio, per le strade di Napoli: parte il Giro d'Italia, tutta un'altra storia. Nel settore grandi giri ci resta almeno Nibali, un bel testimonial del ciclismo che non c'è.

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