Date il cinque a Valeria Straneo, vi allungherà un sorriso mentre si sta sciroppando i suoi 42 km di maratona, ai 34 gradi di Mosca nell'ora del pranzo, inseguita da un pugno di ombre nere. Si toglie gli occhiali scuri solo quando si fascia le spalle della bandiera italiana. Forse avrà sognato l'oro, se la ride con un argento: troppo più forte la keniana Edna Kiplagat negli ultimi due chilometri. «Bellissimo argento», dice. «Inatteso, quasi da non crederci», soggiunge. Nel suo sorriso, nella felicità infantile, nell'aria soddisfatta c'è il bello delle atlete che sanno vedere sempre il sole, anche quando c'è un po' di nuvolo. Ricorda i sorrisi da luna piena di Gabriella Dorio, la determinazione agonistica di Sara Simeoni, la gioia tutta napoletana di Antonietta Di Martino. É mamma anche lei, ma non se la tira. Quante mamme vincenti racconta questa Italia senza bisogno di far conto sui mesi dalla nascita. Lei saluta i bambini dalla tv e raccomanda: «Leo e Arianna fate i bravi». Finisce lì, ringrazia il marito («un mammo perfetto») e si sbraccia e urla quando «Emmina» dice lei, ovvero Emma Quaglia arriva sul traguardo acchiappando un bellissimo sesto posto conquistato in rimonta sulle concorrenti che la Straneo ha demolito, triturato con ritmo da macchina da guerra. Valeria ed Emma accomunate da un destino difficile, malattie combattute e sconfitte. Vinto il male, hanno cominciato a vincere anche sulla strada. Non è solo destino.
Il clan delle indomite donne d'Italia accoglie questa signora alessandrina, diventata la nostra lady maratona a 37 anni (stavolta l'età serve a far meraviglia, non è certo uno sgarbo), che ha dato il passo agli azzurri dell'atletica e ci ha riportato al vecchio è bello. Straneo in testa a tutte le ragazze della maratona per 40 km, corsa risparmiosa, corsa con la testa, senza guardarsi indietro, senza chiedersi cosa stava succedendo fino al km 35. «Quando mi sono voltata e mi sono detta caz... Scusate: cavolo, non è possibile, non c'è più nessuno, eravamo rimaste in due. Qualcosa non va, mi sono detta. Ma ho iniziato a crederci per davvero in una medaglia». Anche la gaffe è del tutto naturale, come quando chiede chi fosse la compagna di corsa. «La Kiplagat? Brava!». Certo, la trance agonistica: non l'ha riconosciuta. Ma la keniana vinse a Daegu ed ha rivinto qui. La Straneo ha corso come fosse nella personale galleria del vento, fino a snocciolare velocemente il gruppo. Dopo 10 km sono rimaste in sei, la Kiplagat un po' distratta, staccata di 30 secondi tanto da essere costretta a recuperare: poi via due etiopi, via la giapponese Fukushi, via tutte tranne la lunga, sottile, leggera ombra nera keniana. Valeria lucida, sempre lo stesso ritmo, perfino bambinesca quando dà il cinque a Emma Quaglia incrociata sull'altra corsia di marcia, quella dei ritardatari. Ma quando la Kiplagat è partita verso l'oro, non ha cambiato ritmo. «Non ce l'ho fatta, non ne avevo più». A modo suo aveva già vinto. Questa era la sua quinta maratona: l'anno scorso a Londra finì ottava con fuga finale ai gabinetti dello stadio. Qui il colpo di vita: seconda con un tempo appagante (2h 25'58).
Nella vita ha già battuto la sferocitosi ereditaria, malattia che ti toglie le forze, provoca stanchezza a causa dei bassi valori di emoglobina ed ematocrito (Valeria aveva 10 di emoglobina e 35 di ematocrito). «In pratica ero in perenne anemia», raccontò lei. Ad inizio 2010 finì ridotta ad uno straccio: faticava a stare in piedi. Poi un intervento di rimozione della milza. La milza è un organo che protegge dalle infezioni.
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