C'è un filo sottile che congiunge e ricongiunge Roberto Mancini e la Juve. Odi et amo. Mancio da bambino tifava bianconero e ieri non lo ha nascosto: «Io nasco juventino, lo sono stato fino a 13-14 anni». Nato juventino e forse ancora juventino. Anche se da calciatore eppoi da allenatore si è infilato sempre sulla barricata del far dispetti e gol, della contrapposizione dura. E da parte sua soltanto pura. Se poi criticava Moggi e una certa Juve, non aveva tutti i torti. Oggi eccoli di nuovo, pronti a farsi ciao. Mancini seduto su una panca nuova ed oggettivamente in stato di inferiorità. La Juve col dannato bisogno di fare punti, vincere, non perdere tempo in Champions e magari sfruttare Tevez meglio di quanto abbia fatto Mancini al Manchester City. Juve che non farà convenevoli, tranne quelli resi ieri da Conte in conferenza stampa.
I due hanno in comune una passionalità che tracima amore per il loro mestiere: Mancini con quel guizzo di eleganza, che poi era il suo segno distintivo in campo, Conte con quel guizzo di cattiveria e generosità, che poi era il suo marchio di fabbrica calcistico. L'Antonio furbetto (leggi chiacchiere dopo Toro-Juve) ieri ha proseguito nella parte accogliendo Mancini con parole morbide, stima che va accertata anche se Mancini ha già vinto tanto da allenatore, un pizzico di realismo («Non potrà fare molto con un solo giorno di lavoro») e un frammento di preoccupazione comprensibile. Leggete un po': «Fa piacere ritrovare Mancini come allenatore, aumenta la colonia di tecnici italiani all'estero. Ma avrei preferito ritrovarlo un po' più in là: quando c'è un cambio in panchina diventa difficile trovare qualcosa da studiare. Però è uno dei più bravi allenatori d'Europa ed è giusto che torni in pista. Così il Galatasaray si è ulteriormente rinforzato».
Vista la sconfitta con il Real Madrid (6-1), pare difficile pensare che basti cambiare il manico. Ma è vero che tra Mancini e Juve ci sono momenti di storia calcistica che girano a favore del tecnico: l'esordio in campionato con la Sampdoria (12 settembre 1982) segnato da un successo (1-0) sulla Signora. Il secondo anno all'Inter contrassegnato dal successo in Supercoppa contro la Juve a Torino (1-0 gol di Veron). Lo strano caso di uno scudetto assegnato in segreteria (copyright Mourinho) ai danni dei bianconeri. Il ritorno da allenatore alla Lazio illuminato da un unico successo: la coppa Italia conquistata con un definitivo 2-2 a Torino (dopo il 2-0 all'Olimpico). C'è poi una magia calcistica, un imperdibile gol con colpo di tacco rifilato a Buffon in un Parma-Lazio (anno 1999) che non tocca la squadra bianconera ma il suo portiere che, vedendo Conte e Mancio in panca, sembra proprio l'ultimo dei mohicani. Quelli in giacca e cravatta e lui in calzoncini, che gioca ancora, para, sogna e non fa segnare.
Fra Buffon e Mancini ci sono 14 anni di differenza, con Conte solo nove: ma SuperGigi sembra l'eroe di un'altra storia, il propellente di un'altra gioventù. Quando Mancini chiudeva con il pallone giocato, Buffon cominciava con la Juve. Quando Mancini si è liberato di Tevez, l'Apache è finito alla Juve. Sicuri che il calcio non voglia divertirsi? Quando Terim venne cacciato dalla Fiorentina (febbraio 2001), in panchina ci finì Mancio: allora contestato per questioni regolamentari, oggi al Galatasaray accolto come uno dei migliori, e meglio pagati, allenatori d'Europa. Conte gli ha aperto la porta dello Juventus stadium con senso di ospitalità. E lui ha replicato con ugual garbo: «Se volevo qualcosa di soft stavo a casa sul divano, le polemiche fanno parte del passato ma non ho la bacchetta magica». Chiusa così: stasera la Juve conta di chiudergli la porta in faccia.
Ed ora il destino gli sta raccontando che la vendetta può essere gustata fredda.
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