Mangiarotti, l’unica volta con la guardia abbassata

È morto a 93 anni un monumento dello sport, oro di spada e fioretto. Una storia da primadonna, in eterna sfida tra gentiluomo e guerriero

Mangiarotti, l’unica volta con la guardia abbassata

E ora cosa gli dirà Gianni Brera? «Sbrigati e scrivi l’articolo». Quella volta gli tirò il collo, quasi. Quello aspettava il suo scritto e lui non era ancora arrivato. Poi Edo arrivò un po’ trafelato, con l’accappatoio che si usava allora per salire sul podio. Le premiazioni erano andate per le lunghe. Brera lo prese a male (amichevoli) parole: «Lo sai che dobbiamo chiudere il giornale, il tempo corre. Dove sei finito?». E lui a scusarsi. E l’altro: «Adesso scrivi». Eppoi casualmente: «Chi ha vinto?». Finalmente Edo riuscì ad aprir bocca. «Veramente io». In quella sede della Gazzetta dello Sport trasferita a Helsinki, giochi olimpici 1952, c’era anche Gualtiero Zanetti, un altro grande del giornalismo sportivo. E quei due non ci videro più, saltarono per aria: «E allora ce lo potevi dire! Ma vai a farti benedire! Scrivi!».
Così finì la giornata di mastodontica gloria di Edo Mangiarotti, che per un paio di decenni fece il commentatore sulla Gazzetta mentre sulle pedane vinceva medaglie su medaglie e diventava un simbolo. Quella valeva l’oro della spada individuale, conquistata in coppia (d’intenti) col fratello Dario che arrivò all’argento. Una delle più belle e indimenticabili della sua storia. Edo le pesava tutte, in ogni senso. «I miei 40 ori pesavano più di 8 chili», raccontò. C’era orgoglio in quella pesatura. C’era l’eterno scartasfogliare fra mille ricordi, mille rivoli di una storia.
Dici Mangiarotti e pensi a una grande famiglia, bellissima e sempre nel nome di uno sport. Dici Edo e ripassi i suoi racconti, la storia di un monumento dello sport: l’orgoglio di esser stato due volte portabandiera ai Giochi, la medaglia d’oro vinta a 17 anni, olimpiadi di Berlino ’36 nella spada a squadre, eppoi la lunga strada che lo ha portato a vincere fin all’ultima olimpiade quella di Roma nel 1960. Mangiarotti è storia nella storia, si parli d’Italia o del resto del mondo. Ha conosciuto Hitler e Mussolini. Edo vinceva le medaglie dei tornei dei balilla: c’era stampata la faccia del Duce. Poi, un giorno, decise di venderle tutte e scambiarle con un servizio di posate da 24 pezzi. Mangiarotti fu il campione mandato avanti nel carcere di San Vittore a Milano per parlare con i rivoltosi nella Pasqua del 1946. Pensò: chissà che farabutti. E invece questi lo conoscevano: era un campione dello sport, lasciapassare per trovare modo di intendersi e parlare. Perse qualche anno di gloria per via della guerra, ma non buttò il tempo. «Feci i soldi, commerciando pigne», raccontò. «Poi conobbi una signora che aveva una banca, mi cambiò il danaro in marenghi d’oro, un affare».
Ecco, Mangiarotti non era proprio il campione del «ciao mamma!», bensì un personaggio raffinato e abile, primadonna del suo sport e nello sport. Ti sembrava inespugnabile nella dimensione sportiva, insormontabile anche nell’aspetto fisico, indimenticabile nei racconti: come tutte le primedonne aveva il culto di se stesso e della sua storia, vivacemente critico, polemico, non si sottraeva alle sfide dialettiche. Ne sapeva qualcosa Renzo Nostini, che con lui intrecciò liti e strette di mano.
Edo tirava di spada e di fioretto e con entrambe le armi portò a casa oro, argento e bronzo. Più bravo nella spada raccontano i cultori. Con quell’arma in pugno metteva tutto: velocità, attacco, difesa, scelta del tempo negli arresti. Nel fioretto forse non riuscì ad essere il migliore in assoluto. La scherma era nel Dna di famiglia, il padre Giuseppe inventò il modo moderno di tirare di spada: avendo visto in Edo il talento più raffinato lo trasformò in mancino, insegnandogli l’uso del sinistro. Dei tre fratelli (Dario e Mario gli altri due) Edo era il più classico, fisicamente resistente, feroce nel combattimento in pedana. Invece Dario era il geniaccio e Mario si dedicò alla professione di medico. Papà Giuseppe li aveva abituati a tirare di boxe, affidati alle cure di Erminio Spalla, nostro grande ex campione dei pesi massimi: furono occhi pesti e orecchie rosse. Da qui ne venne l’ispirazione del campione-fighter, mai domo.
Stavolta Edo ha battuto anche il suo medico che nel giorno dei 90 anni gli disse: ti voglio portare a Londra nel 2012. E lui, naturalmente, rispose: ci sto. Non avrebbe mai abbassato la guardia, se non davanti alla nera signora. Alla quale avrà certamente risposto con un inchino da cavaliere e gentiluomo prima di spegnere quello sguardo dolce, chiaro, limpido. Sguardo da campione spavaldo. Bastava entrare nella sua casa milanese per capire il valore delle conquiste, uno spettacolare museo di coppe, coppette, medaglie e ricordi. Mentre dal muro ti guardava una spada dall’impugnatura cesellata. Mangiarotti è rimasto in piedi fino all’ultimo, recentemente aveva partecipato a uno show televisivo in vista delle Olimpiadi di Londra.

Aveva già faticato ad essere a Pechino, quattro anni fa: due mesi prima finì in ospedale per due operazioni e poi un ictus. Eppure prese l’aereo e arrivò. In quei giorni Valentina Vezzali gli disse: «Lei ha vinto 6 ori, io 5. Arrivo a Londra per pareggiarla». E lui non si negò alla sfida: «Perchè no?». Chissà che da lassù non se la goda.

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