«Mi sento un Michelangelo del green»

«Mi sento un Michelangelo del green»

«Solo in Italia poteva accadere: ero a cena dopo un matrimonio, vicino a Siena. Parlavamo del fatto che nei pressi ci avrei visto davvero bene un campo da golf. C’erano delle colline sulla destra e dei cavalli dalla parte opposta. Il cameriere mi sente parlare e da lontano dice: “c’è una signora che cerca qualcuno per costruirle 18 buche, vuole il numero?” Ecco, nasce così Royal Golf La Bagnaia».
Robert Trent Jones junior, prima figlio d’arte e poi padre dei più bei campi da golf del mondo, starebbe per ore a raccontare aneddoti sulla vita, sul green, sull’Italia. «Il mio primo campo in Italia è stato il Pevero. Quando ho incontrato l’Aga Khan glielo ricordato che avevamo giocato a calcio uno contro l’altro, quando lui studiava al Harvard».
Racconta tutto con un sorriso calmo e una voce bassa e calda, mentre ti fa l’onore di portarti a guardare l’ultima sua creatura, il Navarino Bay, in Grecia, a quaranta minuti da Kalamata. E’ il numero 274. Il successivo aprirà vicino a Roma. Cominciamo da questo.
«Sono già operative 9 buche. Il campo si chiama Monterosi, proprietà della famiglia Caltagirone».
E’ il suo terzo in Italia…
«Ce n’è un quarto. In collaborazione con mio padre. Nei primi anni Sessanta mollai gli studi di legge allo Stanford e andai in Sardegna dove incontrai l’Aga Khan, mio coetaneo. Fu un campo difficile da realizzare, per via delle rocce, non abbiamo intaccato per nulla la bellezza naturale del posto. Poi ho realizzato l’Antognolla, vicino Perugia, la chiamavano la Capella Sistina del golf. L’ultimo ha una storia deliziosa. Ero stato invitato dal mio amico Peping Cojuangco al matrimonio di sua figlia, a La Bagnaia. Stavo guidando e vedevo tutto questo paesaggio fantastico, cavalli, colline e colori. Immaginavo a voce alta, a cena, un campo da favola accanto al borgo. Il cameriere, che ovviamente non ci conosceva, mi ha detto: “C’è una signora che vuole costruirlo, si chiama Monti Riffeser, le do il numero. Il giorno seguente ho inviato una lettera con una poesia accanto. Ed ecco le 18 buche. Fra l’altro tornerò lì a fine maggio».
Come si fa a costruire un campo memorabile?
«Devi sentire la terra, devi avere quel feeling. Io chiudo gli occhi e immagino come sarà. Un campo è una opera d’arte, nessuno chiede a Michelangelo come fa a creare. Per questo mio padre introdusse la golf signature: per distinguere i campi realizzati da lui in persona e non da qualcuno del suo team.
Come possiamo definire le sue opere d’arte sul green?
«Estetiche, di una bellezza naturale».
Il suo campo migliore?
«Decidetelo voi. Io dico solo Chambers Bay, vicino Washington. E Navarino Bay».
La storia più assurda che le sia capitata?
«Senza dubbio il campo di Mosca. Mi hanno chiamato nel 1974, perché Armin Hammer, un petroliere, voleva creare dei rapporti economici fra l’URSS e gli Stati Uniti. E’ stato finito nel 1994, in mezzo mille episodi raccapriccianti. Avevano un grosso problema: il golf è uno sport individuale, mentre il comunismo parla delle collettività. Per convincerli dissi loro che Karl Marx giocava a golf: nell’accezione sovietica era uno sport da zar, britannico. Siamo stati chiamati da Breznev, lo abbiamo finito con Eltsin: in mezzo sono cambiati cinque presidenti (Andropov, Cernenko, Gorbaciov gli altri tre), c’è stata la guerra in Afghanistan. I lavori sono iniziati nel 1989, ci lavoravano i soldati, pagati un rublo al giorno, dicevano loro che facevano la storia, che avevano una missione e non si doveva pensare ai soldi. I bunker all’inizio non li volevano, considerandoli elementi di guerra. Mi hanno pagato pochissimo, dandomi in cambio una medaglia. La prima competizione giocata lì fu l’Open di Russia, nel 1994: partecipai e mi dissero che non potevo vincere, al primo posto per forza doveva essere un russo».
Lei gioca ancora?
«Certo, anche se ormai ho l’handicap 12, prima giocavo 1».
Cosa ne pensa di Tiger Woods designer?
«Mi fa ridere: lui fa l’atleta. Pelè è stato un grandissimo giocatore ma non costruisce stadi. In più mi hanno riferito che non è lui a realizzarli, ma un suo amico del college».
C’è un posto dove vorrebbe ancora costruire un campo?
«Rio. Sono stato in gara per costruire il campo olimpico del 2014, ma il comitato ha scelto un altro, giovane e bravo. Non volevano un nome famoso, alle olimpiadi regna uno spirito diverso, basso profilo e nomi sconosciuti, non vogliono glamour».
Cosa ne pensa del golf alle Olimpiadi?
«Non ha senso. Alle Olimpiadi si deve giocare a ping pong non a golf. Non si capisce bene chi potrà partecipare, in base a quali criteri».


Oltre al campo di Mosca ricorda un altro episodio che lo ha sconcertato?
«In Giappone. Loro giocano 4 buche e poi si fermano per bere un thé. Poi altre cinque buche e un altro thé. Quattro ancora e eccoci al terzo thé. Non finiscono mai. In pratica il campo è pieno di punti ristoro».

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