Nell'eterno dilemma se sia nato prima il tennis o Nicola Chirinsky Pietrangeli, ci troviamo a piangere il primo vero grande divo italiano delle racchette. Non che prima di lui non esistessero i tennisti in Italia, ma di sicuro Nicola prima e dopo i successi sportivi ha attraversato una vita talmente straordinaria da essere stato un vero romanzo vivente, uno di quelli che ognuno di noi vorrebbe aver vissuto. Non solo racchette e palline, ma anche donne e motori, principi e principesse: "Da bambino volevo fare l'esploratore, poi ho pensato che con il tennis avrei viaggiato di più".
Nato a Tunisi da un ex calciatore e da una nobile ragazza russa figlia di un colonnello zarista, ha costruito il futuro dopo essere scampato a un bombardamento nella Seconda Guerra Mondiale, convinto che il tempo gli avrebbe dato ragione: "Lo sport non mi ha fatto ricco, ma alla fine sono stato il migliore: lo dice la gente". Meglio vivere, insomma, e tutto nacque andando a trovare papà in un campo di prigionia nel deserto, lì dove su un campo improbabile il doppio Pietrangeli-Pietrangeli vinse un match che aveva in palio un pettine rotto: "È il trofeo più bello della mia carriera". Nicola ha vinto nel 1957 e nel 1961 gli Internazionali d'Italia, ha disputato 164 partite in Davis e per due volte - nel 1959 (anche in doppio con Sirola) e nel 1960 trionfò nel Roland Garros. Per questo è anche nella Hall of Fame del tennis ed è stato n° 3 del mondo, classifica allora redatta da un giornalista del Daily Telegraph e non, come oggi, da un computer: la querelle - portata avanti fino alla fine - sul numero 4 di Adriano Panatta, sul sorpasso di Jannik Sinner e su di chi fosse in realtà il record, è conseguente alla nostra domanda iniziale.
Già, Panatta: l'allievo diventato maestro, con lo spartiacque della finale dei campionati italiani del 1970 (37 anni lui, 20 l'altro) vinta in cinque set da Adriano. Allora fini con un abbraccio, ma segnò un solco nel loro rapporto: "Ascenzietto" così chiamava il figlio del custode dei campi del Tc Parioli diventò l'icona della Coppa Davis vinta nel 1976 in Cile con Pietrangeli Ct. "Ma solo perché io ho avuto il merito di portare la squadra là contro la politica" diceva riferendosi al clima ostile in Italia con i partiti e l'opinione pubblica divisi sulla trasferta a casa del dittatore Pinochet. Ad Adriano non ha mai perdonato il tradimento dopo la finale persa nel '77: "Mi convocarono al Jolly Hotel di Firenze per dirmi che non mi volevano più. Fu un processo staliniano con un plotone di esecuzione". La verità non si saprà mai (Panatta ha smentito il racconto così drammatico), così come per il rapporto con Lea Pericoli, amica e confidente. E d'altronde Nicola era un vero gentiluomo, che ha vissuto l'ultimo paio di decenni come immagine della federazione insieme a Lea e non mancava mai nel posto della tribuna d'onore del Roland Garros (ieri l'omaggio del torneo: "lascia un'eredità straordinaria").
Ha soprattutto avuto la grande gioia di vedersi dedicare da vivo un campo al Foro Italico, quello della Pallacorda: Fatemi il funerale lì, anche se purtroppo non potrò esserci. E se piove, mettete la bara nel sottopassaggio e rimandiamo. La cerimonia invece sarà a Ponte Milvio, ma possiamo dargli ragione: è il campo più bello di tutti.