Mou, l'«amatodiato» che spacca l'Italia

Dal «non sono pirla» allo sfottò ai bianconeri. José ha scosso il pallone

di Matteo Basile

C i sono personaggi che riescono sempre e comunque a dividere. Spaccano in due. C'è chi li ama e chi li odia e non ci può essere una via di mezzo. Anzi. Chi è dalla loro parte li idolatra come divinità, chi si schiera dalla parte opposta li disprezza apertamente. Uno di questi è senza dubbi Josè Mourinho da Setubal, l'autonominato Special One. Lui lo ha sempre fatto, continua a farlo e sicuramente continuerà a farlo. Questione di carattere, questione di personalità. È Mou, e non c'è niente che ci si possa fare.

Il gesto plateale allo Juventus Stadium è solo l'ultimo di una lunga serie di azioni che, piaccia o no, lo hanno reso unico. Frasi, atteggiamenti, pose. Difficile pensare che siano improvvisate, più probabile che siano studiate per alimentare l'aura di un allenatore che ha costruito il proprio personaggio sulle vittorie ma anche sulla comunicazione. Dal «Io non sono un pirla», pronunciato il giorno della sua presentazione da allenatore dell'Inter, alle manette mimate a San Siro quando l'arbitraggio di Inter-Sampdoria non gli piaceva, fino alle corse a perdifiato in mezzo al campo dopo un gol. Per arrivare al tre, il segno del triplete conquistato con i nerazzurri, mostrato ai tifosi della Juve nella gara di andata con lo United e alla mano all'orecchio dopo 90 minuti di insulti e sfottò nella gara di ritorno. È fatto così, il low profile non gli appartiene quando perde, figurarsi quando vince. E così, ancora una volta, l'ennesima, ha saputo spaccare, dividere, alimentare il partito del «è un grande, gli voglio bene» come quello del «è un cretino, solo un provocatore». In Italia come in Inghilterra. I giornali britannici gli hanno dedicato tutte le prime pagine passando dall'elogio per il suo carattere alle critiche per il suo carattere. Già.

E in Italia? Interisti in adorazione, con attacchi di nostalgia ed elogi a profusione, juventini offesi e scatenati contro quel portoghese arrogante e borioso. Divisi, spaccati, come guelfi e ghibellini. In ballo non c'è una guerra ma nemmeno una partita di calcio. C'è molto di più. Perché siamo fatti così, amiamo schierarci come amiamo avere un nemico riconosciuto. Succede nella politica come nel calcio. E chi si espone di più, proprio come fa Mourinho, finisce inevitabilmente per creare due partiti incapaci di comunicare tra loro. E non è il primo esempio nello sport di personaggi in grado di essere amati alla follia e terribilmente odiati. Specie quando per motivi diversi sono stati controversi o borderline. Come Mike Tyson, Diego Armando Maradona, Lance Armostrong. Vite speciali, baciate da talenti unici e da comportamenti fuori dal comune, al limite.

Di certo sono bastati 180 minuti di Mourinho perché il nostro calcio, nel bene come nel male, ne sentisse un po' la mancanza.

Perché personaggi del genere, in un modo o nell'altro, calamitano attenzioni, fanno discutere, stimolano il dibattito. «Non importa che se ne parli bene o male, l'importante è che se ne parli». Lo diceva Oscar Wilde, potrebbe benissimo dirlo Josè Mourinho da Setubal. L'autoproclamato Special One.

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