Era il Luglio dell'Ottantadue e in Brasile decisero di non importare più uova dall'Italia. Ogni volta che ne rompevano uno uscivano tre rossi. Con la erre maiuscola però. Erano i gol del nostro Paolo nazionale, uno dato per spacciato due anni prima per le storie maledette dello scommesse ma salvato alla e dalla Patria che ne intuì l'importanza e la forza. Paolo è un pratese astuto, va a compiere sessant'anni con quella faccia un po' così, chiudendo gli occhi come gli accade quando esprime certi pensieri che, spesso sono furbi e giusti ma non hanno la stessa forza e circuito di alcuni sodali suoi che vanno per la maggiore. Mediaset lo ha preso tra i suoi opinion maker dopo che Sky lo aveva liquidato per fare posto ad altri docenti del pensiero calcistico. Rossi Paolo, classe immensa, non soltanto del Cinquantasei, attaccante non pesante ma di peso tattico enorme, dotato di quelle piccole cose che rendono grande un calciatore, fiuto del gol, essenzialità tecnica, intelligenza. Quando era una promessa gli saltarono gli ammortizzatori delle ginocchia, cartilagine bruciate dallo sforzo e dai colpi di chi gli si opponeva. Raccontano alcuni Rossilogi che l'Inter era a lui interessato ma accadeva una singolare coincidenza, nel Como giocava anche un omonimo di cognome ma di nome Renzo e costui finì in nerazzurro. Scherzi del destino. Rossi crebbe nelle giovanili della Juventus, se ne andò a Vicenza nella squadra Lanerossi e con Giovan Battista Fabbri, l'allenatore che raccontava favole di calcio e pescava sarde grandi come tutto l'Adriatico, fece meraviglie non più nel ruolo di ala, allora si scriveva e diceva così oggi sarebbe esterno destro o quarto o quinto di centrocampo!, segnando gol a destra e a manca. La comproprietà con la Juventus creò lo scandalo al momento di aprire le buste che avrebbero deciso chi fosse il titolare definitivo delle sue prestazioni: Giussi Farina si fece mal consigliare dal consulente Maraschin e scrisse la cifra astronomica di due miliardi seicentododici milioni e cinquecentodiecimila lire, credendo così di fare fesso Giampiero Boniperti che, invece, ne sapeva una più del diavolo e si fermò a ottocento settantacinque milioni. Franco Carraro, allora come sempre, duce del calcio italiano, rassegnò le dimissioni dinanzi a tale vergogna per le finanze di un Paese non certo florido. Il caso fece il giro delle redazioni e dell'Italia tutta. Il Vicenza collassò, finendo retrocesso, Rossi passò ancora alla Juve, al Perugia, al Milan, al Verona. Per i deboli di memoria o ingordi di wikipedia soltanto, restano le immagini del mondiale dell'Ottantadue, oltre alle parole di Giulio Cesare, canzone di Venditti: «Era l'anno dei mondiali, quelli dell'Ottantasei, Paolo Rossi era un ragazzo come noi». Il Venditti cercò di smentire il testo, significando che quel PR era un antifascista morto negli scontri con la polizia. Alibi facile, Paolo Rossi era lui, il ragazzo che al mondiale successivo, quello dell'Ottantasei aveva trent'anni e finì male come tutta la nazionale azzurra eliminata dalla Francia di Michel Platini.
In fondo il ragazzo è sempre tale nell'ondame dei capelli gonfi ma ormai grigi. Ha raccolto in un libro la carriera e la vita, segnata da episodi mille, di gioco e non, collezione di momenti d'oro come il Pallone assegnatogli per meriti mondiali. Spagna '82 fu davvero la sua celebrazione, dopo un avvio scarso. Anzi Pablito non si reggeva in piedi, i maligni scrissero di dosi industriali di creatina per risollevare il gruppo, Bearzot credeva in lui alla morte, volle rialzarlo come si fa con gli eroi anche martiri e Rossi lo ricambiò, segnò al Camp Nou un gol di testa alla Polonia di Boniek anticipando di testa, proprio così, il monumentale Zmuda, si presentò davanti ai brasiliani mandandoli a casa con le tre uova di cui all'inizio, lo definirono hombre del partido e ogni italiano si sentì un signor Rossi, non uno qualunque ma proprio lui, il giovin pratese, el carrasco del Brasile, il boia dei brasiliani. La squadra era in silenzio stampa e Paolo fu protagonista di una gag involontaria, Gianpiero Galeazzi, a bordo campo a fine partita, gli chiese un commento a caldo e Paolo, preso di sorpresa, rispose: «Non ho parole». Non era stupito, proprio rispettava l'ordine di non parlare con la stampa.
Al mercato stratosferico contemporaneo uno come Pablito avrebbe una quotazione fuori dal normale che nemmeno Giuseppe
Farina avrebbe mai scritto in quella fatidica estate del Settantotto. Ma tanto bastò per farne, a ventidue anni, lo scandalo. Meglio così. Come dicevano i latini occorre che accadano gli scandali. Poi vengono i campioni.
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