Eduard Dubinski era un boia sovietico. Di professione difensore della nazionale di football. Lo stadio Lenin era nero di centodiecimila persone, il giorno 13 di ottobre del sessantatré. La CCCP, l'unione delle repubbliche socialiste sovietiche, ospitava l'Italia. Dubinski mise la scarpa sulla faccia di Angelo Benedicto Sormani che cadde come corpo morto, restando a terra per alcuni minuti, sanguinante. Li suturarono la ferita e l'oriundo brasiliano tornò in campo con in testa un capello di lana, tipo sciatore del tempo. Il Dubinski concesse il bis, stese con uno sgambetto Ezio Pascutti che stava volando al gol, il ragazzo italiano si rialzò, fece un dietro front e mise, con violenza, le mani al petto dell'ucraino che come un bambolotto sgonfiato si accasciò, esanime. L'arbitro polacco fischiò la punizione a favore degli azzurri ma mandò negli spogliatoi Pascutti. Perdemmo 2 a 0, praticamente significò l'eliminazione dell'europeo ma significò la fine della carriera azzurra del frut di Mortegliano. Pascutti fu messo al bando dalla Federcalcio nostrana, i rapporti con Mosca andavano addolciti, quell'energumeno non poteva più vestire la maglia azzurra e dovunque si presentasse veniva ricoperto di insulti e di minacce per avere tradito la Patria. Una volta, a Bergamo, gli lanciarono una moneta, forse un sassolino, la sua crapa ormai pelata venne soltanto sfiorata dall'oggetto volante ma lui se la grattò per scherno mentre i tifosi uheggiavano. Oggi sarebbe diventato un idolo, un eroe. Detto per la cronaca, quel boia sovietico (così lo descrisse Gianni Brera) aveva dentro di sé già il male. L'anno prima, nel mondiale cileno, subì una tremenda doppia frattura alla gamba sinistra, causata dal bosniaco Mijic, durante la sfida con la Jugoslavia, l'arbitro tedesco nemmeno intervenne sul fallo ma i compagni di squadra del killer bosniaco lo cacciarono dal campo per la vergogna. Dubinski riprese a giocare proprio alla vigilia della sfida con l'Italia ma il suo fisico era ormai demolito, morì a soli 34 anni, la frattura venne mal curata e provocò un sarcoma.
Ezio Pascutti se ne è andato in silenzio a settantanove anni, concludendo una vita prima gloriosa in campo e poi ordinaria nel dopo calcio, come accadeva e ancora accade agli idoli in controluce. Giocava da ala sinistra, oggi dicesi terzo esterno d'attacco, aveva fiuto del gol ma nervi fragili. Gipo Viani lo portò al Bologna facendogli guadagnare mezzo milione di lire che erano bei soldoni per il ragazzo figlio di un falegname e di una bidella nel paese friulano famoso per il mais, le blave di Mortean. Il Pozzuolo lo aveva venduto per lire trecentomila al Torviscosa, quindi il Bologna lo prese per tre milioni e mezzo, Pascutti avrebbe segnato una epoca bellissima della squadra di Fuffo Bernardini, compreso il titolo di campione d'Italia. Lui non giocò, per infortunio, lo spareggio di Roma contro i nerazzurri di Herrera; venne fuori pulito, insieme con i suoi compagni, dalla storia acida del doping, il Bologna drogato e tutto quello che segnò quel tempo. Dopo la partita Herrera cercò a tutti i costi di portarlo a Milano, l'Inter era disposta a girare al Bologna il giovane Luigi Riva che il Cagliari era pronto a cedere ma Angiolino Schiavio si oppose all'affare.
Con la maglia rossoblù Pascutti segnò 130 gol e nessuno di questi su rigore o punizione, non era roba per lui, troppo schiumante, nevrile come un cavallo alla gabbia, alla partenza,
abbisognava della corsa, del contatto, della sfida sulfurea per scaricare rabbia e voglia di gol. Quel Bologna giocava come in paradiso. Domenica sera a Torino verrà ricordato con il silenzio di rispetto che si deve a un campione.
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