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Pesaola, il «Petisso» più grande del calcio

Si era fatto più piccolo di quanto lo era stato per una vita, la sua bella e lunga vita di anni ottantanove. Trascorreva i giorni avvolto da una coperta, rannicchiato in una poltrona nella casa al Vomero, guardando, con gli occhi ormai scavati, Napoli e quello che a lui ogni giorno ricordava, lo andavano a trovare gli amici di campo, Vinicio e Canè e Bruscolotti, Napul'è . Poi ha dovuto rispondere alla convocazione. Lui stesso me lo aveva detto, con la voce lenta, roca, accompagnata da un mezzo sorriso ma faticoso: «Guarda che il Padre Eterno prima o poi mi convocherà...».

E' accaduto ieri e il calcio e Napoli e noi tutti perdiamo Bruno Pesaola, ala, attaccante, argentino e napoletano, artista del football e delle parole, giocatore di casinò e allenatore campione d'Italia con la Fiorentina, compagno di squadra di Piola e Di Stefano ma anche compagno grande di notti mai finite tra mille sigarette e bicchieri colmi di whisky, raccontando di Maradona e di Sivori, di Pelé e Altafini, di Jeppson e Maraschi e così di Ramon Diaz: «lui viene da un paese dove la gente non parla, fischiaaa ».

Lo chiamavamo "Petisso" che significa piccolo, per la statura non certo per la qualità del suo gioco e del suo vivere. Pesaola non saltava l'uomo, non soltanto per i pochi centimetri di cui disponeva in altezza, ma perché li dribblava, con una finta, un gioco di gambe, un tunnel, la corsa veloce e poi il tiro. Non un fenomeno ma quello che serviva per divertirsi e vincere. Un giorno fatale, l'istriano Gimona Aredio, del Palermo, gli frantumò tibia e perone e Bruno pensò che la carriera ormai era finita a ventiquattro anni. Era sbarcato dall'Argentina e giocava per la Roma, Gimona venne squalificato a vita, poi ridotta a due anni, quindi a undici mesi, poi a sei, secondo usi e costumi già in vigore all'epoca. Pesaola preparò la valigia per tornarsene, con le stampelle, nelle pampas, prima del volo andò a Ischia per una cura di fanghi. Fu il miracolo, dopo due settimane si ripresentò a Roma, la Lazio lo chiamò per una amichevole allestita per presentare il turco Sukrù, in verità il popolo ammirò lui. Il giorno dopo gli fu recapitato un telegramma: «Vieni a Novara, c'è una maglia per te, firmato Silvio Piola». Le favole del calcio sono queste. Novara, Napoli, Genova, Scafati, poi la carriera di allenatore, Firenze, Bologna, Napoli, la Grecia con il Panathinaikos, Siracusa, fumando e bevendo, vivendo e parlando, un libro di storie vere, narrate come lui soltanto sapeva fare, roteando gli occhi scuri che parevano due olive, allargando la bocca con un sorriso che era un ghigno, muovendo le braccia per far intendere al pubblico che la squadra doveva attaccare ma, di nascosto, con l'altro braccio, imponendo ai suoi di arretrare.

Lui e Comaschi, nel Napoli di Achille Lauro, aspettavano 'o Comandante alla vigilia delle partite. Insieme giocavano a scopa, mille lire a partita: «Lo facevamo vincere sempre, così lui ci assicurava un premio ricchissimo». Totò e la Pampanini lo vollero al tavolo di una notte di festa romana, con Walter Chiari girò un film, con Teo Teocoli-Felice Caccamo passò giorni di allegria, ha corso sul prato del Vomero e poi del San Paolo, ha giocato una sola partita con la maglia azzurra della nazionale, a Lisbona contro il Portogallo (Gimona tre presenze!), ha vissuto davvero, solo e solitario, forse dimenticato da un certo Napoli che non ha memorie se non cinematografiche. Lo scudetto di Firenze stava fermo e caldo nei suoi ricordi: «fu bellissimo ma nessuno se ne accorse, forse perché ero piccolo».

Petisso, Bruno, petisso.

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