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Quando mio zio "Mister Sud" mi parlò del piccolo Maradona

Talent scout amato da tutti, era un paladino del Meridione e del Sudamerica. I riti scaramantici da giocare in trasferta

Quando mio zio "Mister Sud" mi parlò del piccolo Maradona

È scomparso a 82 anni Gianni Di Marzio. A dare l’annuncio sui social il figlio Gianluca: «E adesso potrai finalmente allenarlo il tuo caro Diego». Di Marzio infatti è anche noto per essere stato il primo scopritore di Maradona, quando le frontiere erano chiuse agli stranieri. In carriera ha allenato Nocerina, Juve Stabia, Brindisi, Catanzaro che portò in A. Poi il Napoli, Genoa, Lecce, Catania, Padova, Cosenza e infine il Palermo, diventando poi osservatore.

A noi nipotini, e anche al figlio Gianluca futuro guru del calciomercato, ripeteva come un mantra: «Da grandi dovete fare i giornalisti», categoria cercata e temuta dai protagonisti dello sport ma nei cui confronti zio Gianni nutriva un profondo rispetto misto ad ammirazione. Al punto da riuscire a prendersi, grazie alle innumerevoli collaborazioni televisive, il tesserino da pubblicista che ostentava con orgoglio. In realtà i motivi di orgoglio, non solo agli occhi di noi bambini affascinati dallo zio allenatore, erano ben altri.

Sono gli attestati di affetto che oggi piovono da ogni parte del mondo per il mister del Sud scomparso all'improvviso; ed è anche quel murales che in autunno è comparso a Napoli in un museo a cielo aperto dedicato a coloro che hanno fatto la storia del club azzurro e che lo ritrae, giovanissimo allenatore, col pallone in mano al fianco del «Petisso» Pesaola. Mi mandò quella foto prima di Natale e mi annunciò l'ingresso in quella galleria con una punta di commozione che avrebbe dovuto insospettirmi. Anche perché Gianni Di Marzio è stato l'ennesimo esempio che nessuno è profeta in patria e sulla panchina di Fuorigrotta non ci è rimasto molto tempo, appena quello di un'annata da quinto posto e una finale di Coppa Italia persa con l'Inter, per poi cedere il posto al rivale Vinicio. Ma quel tempo fu più che sufficiente per restare a vita nel cuore non solo dei tifosi partenopei come il primo scopritore del piccolo Maradona. Ero un ragazzino quando, in macchina con mio padre per la nativa Mergellina, raccontò di quell'enfant prodige scovato a Buenos Aires. «Ha solo 13 anni - disse - devo fare di tutto per portarlo qui a Napoli». Ma le frontiere erano chiuse e Ferlaino non fu lungimirante nell'ascoltare la sua proposta di fargli avere la cittadinanza italiana con qualche escamotage. Oggi non si scandalizzerebbe nessuno.

Con il Pibe de Oro, al di là della foto storica che li ritrae all'aeroporto, sarebbe nata per sempre un'amicizia e una stima reciproca profonde. Del resto, del Sudamerica e dei suoi talenti da scoprire, zio Gianni aveva un amore rimasto intatto fino a prima della pandemia, che lui sviscerava in continui viaggi dal Brasile all'Argentina. Ma gli anni della panchina, precedenti alla carriera di osservatore e commentatore, sono quelli che hanno segnato la mia infanzia e la mia passione calcistica, impregnandola di una vena campanilistica di cui lui divenne una specie di portabandiera. Le trasferte al Nord alla testa di compagini di quasi tutto il Mezzogiorno - dal Catanzaro al Catania, dal Napoli al Lecce, dal Palermo al Cosenza - assurgevano a una sorta di guerre puniche, epopee dove Davide sfidava Golia, e più di una volta faceva centro. Le accuse di catenacciaro non lo sfioravano; quando arrivavo in hotel mi abbracciava e mi presentava i giocatori che lo veneravano come un fratello maggiore, perdonandogli le volte che ne sfotteva qualcuno dicendogli che se la stava facendo addosso al pensiero di San Siro. Oppure quando «sfruttava» qualche riserva per andare a prendere un amico all'aeroporto. Ma i suoi ragazzi, quando scendevano in campo spesso sotto qualche coro razzista, per lui davano tutto e di palloni ne passavano pochi. Anche perché, mi ripeteva più volte, «noi allenatori ci possiamo inventare qualsiasi cosa, ma poi quelli che vanno in campo sono loro».

Era terribilmente scaramantico e se perdeva una trasferta, la volta successiva era attentissimo a non ripetere alcun dettaglio, a cominciare dalla scelta dell'albergo fino al menu della squadra. Di quei giocatori, ce ne sono alcuni rimasti amici per la vita. Come Claudio Ranieri, uno degli eroi del Catanzaro della promozione in A, con cui ha condiviso tante vacanze e che oggi dall'Inghilterra scrive: «Addio Gianni, sei stato il mio allenatore per 5 anni e mio grande amico per tutta la vita: se sono allenatore lo devo a te. Mi mancherai, tantissimo». L'altra promozione storica fu quella con il Catania del presidente Massimino (quello dell'«amalgama») evento che lo consacrò a vita nel cuore dei tifosi siciliani; la Trinacria divenne la sua seconda patria, con la casa ad Acitrezza a fare da quartier generale delle vacanze con l'adorata moglie Tucci, e l'amicizia con il presidente del Palermo Zamparini che per il matrimonio di Gianluca gli fece recapitare con un aereo privato un quintale di gamberi rossi di Mazara.

Gli aneddoti pittoreschi sulle sortite paracalcistiche si sprecano: dal campo di Catanzaro fatto allagare di notte alla vigilia con la partita con la Juve, ai sassolini contro l'Avellino ai tempi della panchina con la Juve Stabia. «Tutte chiacchiere» rideva facendo l'occhiolino e dandoti un pizzicotto. Dal mare magno di amici e parenti c'era sempre chi gli proponeva qualche presunto giovane talento; una volta gli presentarono per un provino il figlio di un'attrice, ragazzino biondo ed elegante, aspirante centravanti.

Lui lo incoraggiò, lo congedò e poi, da consumato allenatore «del popolo» quale era, mi disse con una smorfia: «Sai qual è il problema? Quel ragazzo non ha fame».

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