di Riccardo Signori
«A quella squadra sobria ed essenziale, prestava sicurezza e nervi saldi. Difesa e contropiede micidiale, ma il sangue ghiaccio nei momenti caldi». Giuliano Sarti era questo, raccontato nella poesiola di un tifoso interista dalla rima facile. Però, certo, come si può dimenticare? «E poi quel tiro, assurdo e maledetto, più che le mani sue, bucò il suo cuore». I segni del destino talvolta ammiccano, lucidano l'orgoglio, altre volte divorano.
Giuliano Sarti ha convissuto tutta una vita con i ricordi degni di un portierone (4 finali di coppa Campioni come nessun numero uno in Italia, tre scudetti, due coppe Campioni, due coppe Intercontinentali, 1 coppa delle coppe, giusto per sintesi), quella cantilena di successo: Sarti, Burgnich, Facchetti E il ricordo di una immane papera calcistica. C'è stata anche la nazionale, ma solo una parentesi: 8 gare, 5 gol subiti, mai una sconfitta. Andavano di moda i portieri dal tuffo spettacolare. Lui era essenziale, gran senso della posizione. Il suo bel finale di vita, appollaiato sulle colline toscane, gli ha insegnato che c'è altro oltre al calcio, oltre ad una papera: 4 figli, sette nipoti, una metà del cielo da scorgere nel fumo di un sigaro. A 71 anni si ritrovò con problemi al cuore, il medico gli disse: «Smetta di fumare, fa male». E lui: «La vita media di un uomo arriva a 78 anni, perché vuole togliermi il piacere di un sigaro per sette anni?».
Il destino è stato più generoso. Fumo e calcio sono stati compagni di avventura. Sarti cominciò tardi: a 17 anni e per caso. Veniva da Castello d'Argile nel bolognese, il papà fruttivendolo lo mandava in giro a vendere carciofi e brustolini. Non che snobbasse il calcio, ma non aveva il fisico. Si presentarono in 7 ad un provino per il Bologna: scartarono solo lui. Alla visita militare lo fecero rivedibile per il torace. Poi un giorno a Cento, vicino a Ferrara, va a vedere una partita e manca il portiere della San Martino della Decima. «Te la senti di giocare?». A 22 anni (23 aprile 1955 contro il Napoli) l'esordio in serie A: nella porta della Fiorentina. L'anno dopo titolare: e fu subito scudetto. Parava a mani nude, metteva i guanti solo se pioveva. Kurt Hamrin gli consigliò quelli di lana: «Fanno più attrito sul cuoio del pallone». A Firenze lo preparava Arturo Maffei, un ex atleta, bronzo del salto in lungo ai Giochi di Berlino 1936. L'allenatore era il dottore, al secolo Fulvio Bernardini. «Bernardini ha cambiato me, Herrera ha cambiato il calcio» soleva dire Sarti. Bernardini aveva intuito quanto valeva quel portiere per caso, che il gioco annoiava. E dalla noia il nostro modellò il modo di parare. Diceva che bisognava stare in porta in modo geometrico. «Tutto il corpo rivolto al tiratore, sempre in linea con la palla». Sarti divideva il mondo dei numeri uno in due emisferi: i portieri della geometria e i portieri della reattività. La differenza? «I reattivi aggrediscono la palla che, invece, va raccolta». A Firenze arrivò analfabeta, in nove anni scalò montagne: giocò pure la finale di coppa Campioni contro il Real Madrid di Kopa, Gento e Di Stefano. Alle sue spalle prendeva appunti Ricky Albertosi.
Herrera lo etichettò: «El hombre de la revolucion». E qualche volta ci litigò. Gipo Viani emise la sentenza: «O è bravo o è matto». Luis Suarez lo schizzò in due parole: «Faceva cose con semplicità, parate difficili come fosse niente».
Sarti arrivò all'Inter e perse lo scudetto nel famoso corpo a corpo con il Bologna, poi fu sola gloria fino alla fatal Mantova. Cercò di salvare la porta nella finale di coppa Campioni con il Celtic, ma la strada del declino della Grande Inter era segnata. La squadra, spremuta, si piegò a Mantova: quel giovedì di giugno 1967, il pallone scagliato da un innocuo cross di Beniamino Di Giacomo gli bucò le mani. Inter sconfitta, sorpasso Juve: crudele regia. Sarti il freddo si avvitò al palo, lo scosse a colpi di testa fin a rischiare una commozione cerebrale.
Qualcuno pensò che non tutto fosse chiaro, anzi previde il futuro: Sarti, nel 1968, passò alla Juve per due anni, giocando solo 10 partite. Poi svanì dal grande calcio. I dubbiosi non svanirono mai.
Otto anni fa, Sofia la nipotina di 11 anni, si classificò 16ª ad un concorso di ginnastica ritmica. Lei si spiegò: «scusa nonno, mi è scappata la palla dalle mani». E lui la consolò: «Figliolina, è capitato anche a me. Tanto tempo fa. Non si può farci niente».
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