Sono passati trent’anni dall’ultima pilota donna in Formula Uno

Giovanna Amati è stata l'ultima racing woman: nel 1992 la rapida esperienza - non scintillante - alla Brabham

Giovanna Amati nel 1992
Giovanna Amati nel 1992
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I polpastrelli sono premuti contro la pelle lucida del volante, anche se non è mai stata un’inclinazione di famiglia. Mamma e papà flirtano con il cinema, figurarsi cosa gliene può fregare dei motori. Giovanni Amati possiede numerose sale nella capitale, mentre Anna Maria Pancani è attrice di fama preclara. Giovanna però è differente. Pazienza se qualcuno arriccia il naso, tentando di dissuaderla: lei affonda il pedale lungo la sua personalissima strada.

Romana sincera, una nuvola di lunghi capelli mossi che scendono sulle spalle a incorniciare un viso gentile, pare tutto fuorché una predestinata delle quattro ruote. La passione incisa nella genetica tuttavia è un rivolo che scorre incessante, seguendo logiche che non richiedono giustificazioni. I poster stropicciati che accarezza nella sua cameretta non sono quelli di una qualsiasi teenager. Niente gruppi musicali da scrutare con occhi sognanti, mentre una musichetta si lavora la stanza in sottofondo. La sua playlist è monoteistica: il ruggito vibrante di un motore.

Aspettative che rischiano di infrangersi prima ancora di appollaiarsi in un abitacolo, se la banda dei marsigliesi decide di rapirti per incassare una prebenda. È il 1978 e Giovanna ha soltanto diciannove anni. È piccola, tesa, impaurita. La tengono prigioniera in un pertugio fetido per settantacinque giorni, prima di lasciarla andare a fronte di un riscatto panciuto, da 800 milioni sonanti delle vecchie lire. In quel drammatico intervallo temporale però succede una di quelle cose che non puoi aspettarti mai. Il leader dell’organizzazione, Daniel Neto, ne abusa sessualmente. Un fatto esecrabile, che tuttavia funge da innesco per un innamoramento inedito. La sindrome di Stoccolma è servita. Ne farà le spese anche lo stesso Neto, braccato e catturato qualche giorno dopo. Lo pizzicano nel bel mezzo di via Veneto, mentre sta andando ad un appuntamento per incontrare di nuovo Giovanna.

La ragazza è scossa, ma i sogni che coltiva non contemplano pit stop prolungati. Archiviato il sequestro, si mette alla ricerca di una vettura che le consenta di esprimere tutte le sue qualità. La spunta ad inizio anni Ottanta, grazie ai consigli dell’amico Elio De Angelis. L’incipit è in formula Abarth, palestra stimolante per ossa in formazione. Poi il gran salto, quello verso la Formula 3. Qui il palcoscenico riflette luci diverse. In pista contende ogni chicane a piloti che, successivamente, sfrecceranno a bordo di gloriose monoposto in Formula 1.

Quello scintillante Olimpo è la tappa successiva. L’incrocio elucubrato dal destino la appaia con una scuderia appannata, sorta trent’anni prima nell’operoso ventre di Milton Keynes. Finanziariamente allo sbando e forzatamente disincantata, la Brabham sospira ogni volta che socchiude le palpebre per ripensare al suo glorioso passato. Nel 1992, attingendo ad un rimasuglio di forze, ingaggia due piloti. Il primo è Eric Van de Poele. Va tutto liscio. Quando però la scuderia approccia il talento nipponico Akihiko Nakaya, la strada si impenna d’un tratto. La FIA respinge al mittente la domanda di Super Licenza del pilota e lascia gli inglesi al palo.

Pressata da un orologio pronto a trillare sul gong da un istante all’altro, la Brabham ha una manciata di giorni per schivare la mattanza tecnica e mediatica. Così, sul suo secondo scranno, si accomoda proprio Giovanna: munita dell’esperienza necessaria, assurge all’onorevole rango di seconda donna in Formula Uno, dai tempi di Desire Wilson. Chi si sfrega le mani per un balsamico lieto fine è destinato tuttavia a deglutire spanne generose di frustrazione. Amati ci prova ma non riesce a scalfire la cortina intangibile che la separa dal resto del circus.

Sui circuiti di Kyalami, Mexico City ed Interlagos la qualifica diventa un miraggio, mentre il distacco da chi strappa la pole position assume proporzioni imbarazzanti. Un fallimento figlio di padri molteplici. Le tessiture meccaniche della scuderia britannica emettono clangori funesti, costringendola sovente ai box. La totale mancanza di test con la monoposto anestetizza un feeling che non scocca mai. Finita per la prima volta nel tritatutto della Formula regale, Giovanna denuncia limiti tecnici e carismatici che non ha il tempo per colmare. I titoli di coda si srotolano con lo stesso sollecito incedere con cui era stata premuta in pista.

Amati, con quei polpastrelli, ha stretto una liana sfilacciata oscillando sopra una giungla

di soli esemplari maschi. Quell’habitat l’ha trangugiata in fretta. Trent’anni invece, mettendosi di traverso, hanno soltanto sbiadito il ricordo dell’ultima donna che ha osò incrinare dogmi scolpiti nella pietra.

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