Passata la festa il santo non è stato gabbato. Anzi. Celebrato addirittura come un eroe, una divinità, angelo del paradiso terrestre. Totti Francesco Fernando (è il suo improbabile nome di battesimo grazie alla Fifa), Totti, dunque, ha festeggiato spegnendo le candeline mentre il resto dei suoi fedeli accendevano candele votive. Così vanno le cose romane e romaniste nel segno di un campione certo, assoluto ma non così fenomenale come il corteo sta cantando, scrivendo, ripetendo. Perché la storia del calcio italiano, degli italiani intendo, annovera nomi altrettanto importanti, anche più forti del capitano romanista che, di questo gruppo di eletti, fa comunque parte. Ma non al primo posto. Vorrei segnalare ai contemporanei queste note di Gianni Brera: «Era un traccagno di piccola statura e tuttavia così dotato atleticamente da strabiliare. Scattava da velocista, correva da fondista, tirava con i due piedi come uno specialista del gol, staccava e incornava con mosse da grande acrobata, recuperava in difesa, impostava l'attacco e vi rientrava spesso per concludere. Era insieme regista e match-winner». Brera così scriveva di Valentino Mazzola che non godeva di sponsor, dirette tivù, spot pubblicitari, era un campione totale, lui rapito dalle divinità in quel giorno maledetto di maggio del Quarantanove.
Mazzola numero 10 del Torino, il grande Torino, e della nazionale, numero 10 di testa e di cuore. Suo figlio, Sandro, provò a ricoprire quel ruolo, per affetto e presunzione ma doveva fare i conti con un altro fuoriclasse, Gianni Rivera, elegante, raffinato, capitano, primo golden boy del nostro cinematografo calcistico, dotato di un drone privato, personale, capace di controllare e intuire il gioco un secondo prima del resto degli astanti. Potrei aggiungere, di quell'epoca, Giacomo Bulgarelli, non dieci di maglia ma di fosforo, Pier Paolo Pasolini così scrisse: «Bulgarelli gioca un calcio in prosa, egli è un prosatore realista». Proseguo nel gioco delle figurine, Giancarlo Antognoni che posto occupa? Alto, altissimo, per gli inglesi il miglior interprete al mondo di questo ruolo, di stile e di classe, incompreso e isolato nella sua Fiorentina. Firenze, allora, Roberto Baggio, l'arte, non la prosa di Bulgarelli ma la poesia, un coniglio bagnato per Gianni Agnelli che lo considerava, con la consueta perfidia, «il più grande giocatorino che abbia conosciuto», rococò di tocco, umile e troppo isolato durante e dopo, rarissime interviste, grandissime giocate.
E si scivola tra i contemporanei: Alessandro Del Piero, il dieci meno esplosivo ma più intelligente, filosofia di football, goleador e uomo spogliatoio. Quindi Andrea Pirlo, uno, nessuno, centomila, un fantasma che improvvisamente si trasforma in corpo e genio, il football normale, essenziale ma, per questo, irripetibile, unico.
E allora Francesco Totti ultimo perché ancora itinerante, ancora segnante e vincente, non in campo ma nella sua quotidiana esistenza, con la sua famiglia, con la sua Roma, la città, il popolo giallorosso e non soltanto quello, perché chi ama il calcio, non può che amare Francesco Totti. Anche se si chiamasse Fernando. Chiudere l'album e conservarlo in un cassetto segreto.
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