Una sposa bambina per il rom Lei 13 anni, lui malato di Aids

BresciaHa rischiato di essere contagiata dal virus Hiv. E a solo 13 anni. Tutto perché è stata data in sposa quando ancora era bambina. Ma a un marito sieropositivo. Alla famiglia della ragazzina però, evidentemente, non interessava. Non importava che il giovane rom al quale davano la loro figlia fosse malato e di una malattia che avrebbe trasmesso di sicuro alla ragazzina divenuta sua moglie.
L’ennesimo caso di sposa-bambina è scoppiato a Brescia, dove c’era stato un precedente nel luglio scorso: allora una 13enne zingara sposata con la forza aveva partorito all’ospedale Civile. E anche stavolta l’allarme è arrivato dal Civile. Là la suocera ha portato la sposa bambina perché temeva che il figlio l’avesse contagiata e che quindi potesse «avvelenare» la progenie. Ma i medici trovandosi di fronte una bimba terrorizzata dalla paura del contagio hanno segnalato il caso alle forze dell’ordine e da qui la storia è finita sulla scrivania del pm Silvia Bonardi. Con stupore della 39enne suocera e del 21enne marito-padrone arrestati entrambi dalla Mobile di Brescia: per loro era tutto normale. O almeno è così che si giustificheranno.
«Normale» cedere una figlia a un’altra famiglia, e mettere tutto per iscritto compresa la scadenza del «contratto»: il 2014. Una sorta di affido che li avrebbe messi, secondo loro, al riparo dalla giustizia. È con quel «contratto» in mano che sono partiti tutti da Brescia, dove risiedevano da anni: famiglia della moglie-bambina e famiglia dello sposo-orco. Sì, perché l’unione l’hanno celebrata in Romania, la terra di origine. Una parentesi di pochi giorni, solo per il matrimonio, prima di tornare in Italia dove lavoravano ed erano apparentemente ben integrati. Ma tutti a quel matrimonio, celebrato nello scorso settembre con rito zingaro, sapevano che lo sposo era malato di Aids.
Ma rieccoli a Brescia a condurre la vita di prima, salvo per la nuova coppia: lui ventenne e lei la 13enne in «comodato» fino al 2014. Vita di coppia, e lei che non può evitare di avere rapporti con lui. È giovane ma sa che cosa è la paura del contagio. E vorrebbe essere sicura che se avrà una vita da schiava, almeno non l’avrà da malata. Ma all’ospedale non c’è nessuna storia che può reggere davanti ai medici. Non c’è bisogno di fare domande. La visitano, questo subito, ed escludono che abbia contratto il virus. Ma dopo informano l’autorità giudiziaria. La Squadra Mobile di Brescia scopre una vita da semi-clandestina, da piccola donna con tanti doveri e nessun diritto: costretta in casa, non può vedere nessuno, non può andare a scuola. Il caso è affidato ai servizi sociali che non intuiscono subito la gravità della situazione. Il marito le permette di andare a scuola: ma nessuna amicizia e niente mensa perché lì ci vanno anche i compagni maschi.
Passano i mesi, poi a gennaio eccola di nuovo in ospedale. Ha avuto un rapporto completo e non protetto, e ha più paura di prima. Ha chiesto alla suocera di accompagnarla questa volta, e la madre del suo marito-padrone le ha detto sì. Anche lei vuole certezze, non vuole vedere i figli di suo figlio crescere ammalati. I medici la sottopongono a terapia retrovirale e le impongono il riposo. Ma intanto scatta una nuova segnalazione.

Così l’altro giorno il marito e sua madre sono arrestati e la loro vittima affidata a una comunità protetta. L’accusa è di violenza sessuale e riduzione in schiavitù. Ma non si sentono colpevoli. «In Italia è vietato?», chiedono.

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