Cultura e Spettacoli

Star, intellettuali e scandali il Festival ombelico del cinema

Storia semiseria della Croisette, dalla Cardinale con un ghepardo al guinzaglio ai registi gauchistes a Fellini che sognava una conferenza stampa silenziosa

nostro inviato a Cannes
Il primo omaggio sarà quello riservato a giurati e invitati: un libretto scritto a quattro mani da Gilles Jacob, il decano della manifestazione, e J.M.G. Le Clézio, il più schivo degli scrittori francesi. Racconta in forma autobiografica la magia delle sale cinematografiche. Il secondo di mani ne prevede sessantasei, raccoglie il meglio della cinematografia internazionale, si chiama A’ Chacun son Cinéma ed è un tributo filmato e collettivo al rito e al mito dell’andare al cinema. Per i suoi sessant’anni il Festival di Cannes, che si inaugura domani, più che se stesso festeggia dunque la materia di cui è fatto, la ragione stessa della sua esistenza, ben sapendo che la schiera di volenterosi pronta ad accendere le candeline della nostalgia e dell’orgoglio comunque non manca. Si comincia con l’album fotografico Le Festival de Cannes vu par Emanuele Scorcelletti, prefazione di Jeanne Moreau, si continua con il doppio Cannes. Elles-Ils ont fait le Festival, pubblicato dai Cahiers du Cinéma, c’è spazio per il Cannes di Yves Alion e Jean-Ollé-Leprune, per quello tutto immagini di Reporters sans frontières, nonché per le memorie cinefile e mondane di Fréderic Mitterrand. A’ Chacun son Festival insomma...
Il connubio fra cultura scritta e cultura visiva fa del resto parte del dna di una manifestazione che per venire al mondo, nel maggio del 1946, ebbe bisogno della letteratura in veste di madrina, garante della sua legittimità culturale. I presidenti di giuria si chiamavano André Maurois, Jean Cocteau, Marcel Pagnol, Marcel Achard, Georges Simenon, Jean Giono, André Chamson... Tutti uomini di lettere, tutti, o quasi, accademici di Francia. Andavano a cena alla villa Yakimour dove imperava la Bégum, la vedova dell’Aga Khan, e lì, fra una coppa di champagne e una tartina, discutevano, decidevano. Il ’68 li spazzerà via, con Carlos Saura, Louis Malle, François Truffaut attaccati al sipario per impedire che il festival si inauguri. Basta con i premi, basta con i padrinati, non è un varietà, un’esibizione, un circo.
L’impasse durò alcuni anni, sufficienti però per capire che se la cinematografia era una cosa troppo seria per essere lasciata in mano agli intellettuali di carta, vulgo scrittori, rischiava di non sopravvivere se affidata soltanto a quelle degli intellettuali di celluloide, vulgo registi. Era emozione, commozione, spettacolo, business, rivalità, eccentricità, follia.
Così, a partire dagli anni Ottanta, si provò a invertire la rotta e in fondo a ripetere, letteratura più o meno a parte, il passato: bisognava che tutto cambiasse perché tutto tornasse com’era stato... Non era facile, e forse non era più possibile. Nel 1956 per Il giro del mondo in 80 giorni il produttore Mike Todd aveva portato due leoni sulla spiaggia e Liz Taylor, sua moglie, si era messa tranquilla ad accarezzarli. Nel 1963 Claudia Cardinale avrà un ghepardo al guinzaglio per la prima del Gattopardo di Visconti e Tippi Hedren libererà 300 colombe per la prima degli Uccelli di Hitchcock. Tutto era stato già fatto, tutto, insomma, era stato già visto e quanto alle starlettes, un tempo un must della manifestazione, non c’era più bisogno che si spogliassero sulla croisette per farsi notare da registi e produttori. Si spogliavano ormai in televisione e arrivavano prima al letto e al successo. Anche gli omosessuali non avevano più bisogno di mantenere la privacy, come Tennessee Williams che presentava il suo giovane amante come nipote a Franco Zeffirelli e si sentiva rispondere: «Strano, era mio nipote lo scorso anno». Con Almodóvar è già stato messo tutto in pubblico e prima dello spagnolo il tedesco Rainer Maria Fassbinder era stato già visto aggirarsi per le vie cittadine, lui e i suoi ragazzi, tutti vestiti di cuoio e con la bottega aperta...
Fra la Plage Sportive davanti al Noga Hilton, il Palm Beach davanti al Casinò, il Lady Bird lì dov’era il Whiski à Gogo, lo Zanzibar in rue d’Antibes, il Palais Oriental in collina le top model hanno in fondo sostituito le attrici quanto a presenza ed Eva Herzigova, Naomi Campbell, Padma Lakshmi danno feste di beneficenza e parties all’insegna del glamorous dress. Ogni sera attori e attrici fanno la loro montée des marches salendo sui gradini ricoperti di velluto rosso che portano al Palazzo del cinema. Le donne hanno le mises più affascinanti, i maschi sono rigorosamente in smoking, l’unica cosa, quest’ultima, che in mezzo secolo e passa a Cannes non sia veramente cambiata.
Certo, sessant’anni dopo, la scommessa si è rivelata comunque vincente. Perché, diciamoci la verità, chi avrebbe puntato su un festival del cinema da tenersi in estate e in una località marina? Con poi il carico aggiunto di un numero sproporzionato di proiezioni, di feste, di cene e in una cornice, bisognerà pur dirlo, non delle più felici. Perché Cannes è una città brutta che di bello ha solo gli alberghi di quando era il rifugio dorato degli anni folli fra le due guerre mondiali: il Carlton, con le sue cupole ispirate ai seni della Bella Otéro, la regina della Belle Epoque specializzata nell’andare a letto con i regnanti, il Martinez con la sua hall di 250 metri quadrati e le colonne ricoperte di legno argentato, il Majestic con la sua piscina in stile Napoleone III, l’Hôtel du Cap, a Cap d’Antibes, dove Francis Scott Fitzgerald ambienterà Tenera è la notte...
Divenuto un affare industriale che macina decine di miliardi, il Festival è oggi una fortezza blindata in cui tutto è contingentato, dagli spazi e dagli orari per i fotografi al minutaggio per le interviste. Scortate e protette le star vanno in limousine anche al gabinetto e restano segregate sino a cinque minuti prima della loro unica passerella, la presenza degli ospiti d’onore alle feste generalmente non va al di là di un’apparizione legata a un cospicuo gettone di presenza.
Specchio nel quale il cinema e la società che lo produceva si sono riflessi, amati e/o disprezzati, Cannes resta però e nonostante tutto il paradiso, più o meno perduto, inseguito, e ritrovato, dei registi. Tre anni fa Gilles Jacob provò a raccontarli in un documentario che si intitolava Epreuves d’artistes. Il più divertente risultò Fellini: «Sogno una conferenza stampa silenziosa. Ci si guarda, ci si sorride, ci si lascia. D’altra parte, che cosa potrebbe dire un regista? Che fa un film perché ha incassato un anticipo e non lo vuole ridare indietro?». Il più sarcasticamente sincero, Jean-Luc Godard: «Fra la gente del cinema quelli che preferisco sono i produttori, gli unici che mettano mano al portafogli e paghino. Voi direte che mi faccio comprare. È vero. Ciò non significa che mi sia venduto»...

Da domani si ricomincia.

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