Gli Stati Uniti e la continuità dell’impero

«Se togliamo l’Irak dall’equazione, dubito che la politica estera americana apparirebbe radicalmente diversa dal passato». Ad emettere questa sentenza non è, come si potrebbe presumere, il vice-presidente americano Dick Cheney, ma uno stimato esperto di storia delle relazioni internazionali come Frank Ninkovich sull’ultimo numero della rivista Ricerche di Storia Politica. Oltre a Ninkovich, il quadrimestrale diretto da Fulvio Cammarano ha interpellato altri due esperti di relazioni internazionali, Richard Crockatt e Anders Stephenson, ad animare con Mario Del Pero una tavola rotonda che spazia dalla supposta tradizione wilsoniana dei neo-conservatori alla novità o meno della dottrina della guerra preventiva. E anche Stephenson sostiene la teoria della continuità storica nella politica estera dell’attuale presidente. Se da un punto di vista politico ed ideologico si può notare una rottura secca rispetto al passato, nel senso che «... gli Usa hanno annunciato in termini privi di incertezza la loro volontà di primato», gran parte della novità è contenuta però «nell’aspetto dichiarativo, più che nella sostanza». L’ideologia della Guerra fredda si fondava sulla possibilità statunitense di intervenire in qualsiasi momento per difendere la cosiddetta parte libera del mondo dalla minaccia comunista. Ora il mondo è unico e la minaccia (il «terrore globale») è diffusa e de-territorializzata. Ne consegue, in linea diretta, che l’ambito di intervento diviene assolutamente illimitato. In definitiva, secondo Stephenson, Bush e la sua squadra di governo non hanno fatto altro che traslare il «ruolo extra-legale e messianico della Guerra fredda», riattivandolo per affrontare la nuova guerra al terrorismo.
Se si ragiona in un’ottica storica, dunque meno intossicata dalla polemica politica quotidiana, si può anche notare, aggiunge Ninkovich, che la molto citata frattura euro-atlantica non è sicuramente una novità nello scenario internazionale. Nel corso degli anni Sessanta, in particolare in corrispondenza con l’impegno militare americano in Vietnam, i cosiddetti unilateralismo ed imperialismo americani furono oggetto di grandi proteste nel Vecchio Continente. L’idea insomma che il multilateralismo (virtuoso) sia la peculiarità fondante delle amministrazioni americane precedenti all’odierna è davvero difficile da supportare storicamente. I tre esperti concordano sull’approccio ideologico ed aggressivo connaturato alla leadership di Bush, ma non si sentono di collocare questa attitudine al di fuori dell’esperienza storica statunitense. Allo stesso modo invitano a non trascurare la dimensione personale della leadership e le sue ricadute nelle decisioni politiche tout court.
Se il carattere imperiale è un tratto fondante dell’agire statunitense in politica estera, diventa indispensabile cercare di comprendere di quali e quante esperienze si componga realmente la dimensione politica imperiale novecentesca. L’Impero e gli Imperi del Novecento - questo il titolo del volume monografico di Ricerche di Storia Politica, curato da Guido Formigoni, in cui si inserisce la tavola rotonda - persegue questo obiettivo con contributi che spaziano dall’esperienza anglosassone a quelle asburgica e cinese, senza trascurare gli imperi totalitari nazista e sovietico.

Ma soprattutto cerca di rileggere la centralità storica della categoria di impero, prendendo le distanze dalle vecchie schematizzazioni ideologiche e contemporaneamente mettendo la ricerca storica al servizio della comprensione dell’attualità internazionale. Uno sforzo ammirabile dal momento che oggi è sempre più raro scorgere dove finisca la propaganda e dove inizi la riflessione storica.

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