nostro inviato a Como
Un secolo dopo Kafka potrebbe ambientare il «Castello» in un palazzo di giustizia del «Belpaese». Fatto di stanze e corridoi infiniti, di porte senza sbocco e di tanto impeccabili quanto ottusi funzionari padroni di un groviglio di leggi contrarie a ogni logica e morale.
Due anni fa le cronache raccontarono di due ragazzi finiti nei tentancoli dellusura. Possedevano un bar, sognavano un ristorante, si ritrovarono tra le tenaglie degli strozzini. Denunciarono tutto, chiesero aiuto, più di un politico, (vigilia delle amministrative) lo promise. Invece niente. Anzi, oggi cè la riprova di come questo Stato «di diritto» sempre più spesso si mostri un Giano Bifronte. Ecco quello che succede ad Alessandra e Michele Rocca, fratello e sorella, 25 e 33 anni: sono stati riconosciuti «vittime dellusura» ma contemporaneamente, «grazie» alla magistratura, si sono ritrovati abbandonati. E ora quasi «giustiziati». Le vittime diventano colpevoli: di bancarotta fraudolenta. Per questo a giorni dovranno comparire, su richiesta del pm Massimo Astori, davanti al gip di Como.
Bisogna fare un passo indietro, alla fine 2004, per capire come la burocrazia leguleia abbia potuto arrivare a tanto. Quellanno i giudici comaschi dichiararono infatti fallita limpresa dei Rocca. «A dispetto della legge», raccontava allora Francesco Petrino, ex docente di diritto bancario alla Sapienza di Roma, e presidente del Sindacato nazionale antiusura. Le leggi 108 del 1996 e quella attuativa, la numero 44 del 99, prevedono infatti che nei confronti delle persone riconosciute vittime dellusura vengano sospesi tutti i termini di esecuzione, fallimento compreso.
Michele Rocca, ex carabiniere e cuoco nel «suo» nuovo ristorante di Fino Mornasco - un locale da trecento posti, aperto nel 2000 e in grado di fatturare cinquecentomila euro lanno- allepoca aveva ottenuto dal Fondo nazionale antiusura che fa capo alla Presidenza del consiglio un «aiuto» di 160mila euro. Denaro che avrebbe sbloccato altri 70mila euro di credito da parte delle banche e che gli avrebbe consentito di saldare tutte le pendenze». Eppure il magistrato del tribunale fallimentare accolse listanza di tre creditori (in tutto vantavano 20mila euro) e dichiarò la società «Mar food» fallita.
E gli strozzini che li avevano ridotto in queste condizioni? Grazie alle denunce dei Rocca, due di loro, marito e moglie, Camillo R. ed Edda P. sono stati condannati la scorsa estate a quattro anni di reclusione. La coppia, titolare di una società di arredamento, aveva gestito i lavori nel ristorante dei due giovani, ottenendo in cambio un bel pacchetto di cambiali e assegni bancari. Il primo passo, come scrissero nella sentenza i giudici, «per realizzare il loro vero scopo. Ovvero rilevare lattività commerciale del cliente-vittima». Il sistema era semplice: allinizio tutto normale, poi dopo qualche mese i «pagherò» venivano spediti allincasso in contemporanea.
Una terza persona sarebbe stata in combutta, ovvero luomo che aveva affittato il ristorante ai due ragazzi «prestando» loro la licenza. Un calabrese legato alla ndrangheta che pretendeva oltre al canone di locazione anche la «protezione».
Fu denunciato, ma inutilmente. «Quando smettemmo di cedere ai ricatti, di pagare per evitare guai - racconta Michele Rocca - scattò la vendetta. Danneggiamenti, strani guasti nel locale, fino al giorno in cui trovammo il ristorante circondato da cataste di legna. Nessuno poteva più entrare e chi ci provava veniva minacciato. Noi per primi. Nel giro di un anno perdemmo tutti i clienti. Dovetti licenziare il personale. E chiudemmo».
Oggi, a dispetto delle condanne ai due usurai (chiedevano interessi del 300%), i giudici che avviarono il fallimento della «Mar food» contestano ai fratelli Rocca il fatto di aver pagato solo alcuni creditori a danno di altri.
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