Cesare G. Romana
da Milano
«Ciao Italia, campione del mondo», erompe Mick Jagger, in marsina bianca. Platea pavesata di tricolori, presenti e osannati Del Piero e Materazzi. E allora rieccoli, i Rolling Stones. Vecchissimi, giovanissimi, magnifici. Vecchissimi lo dice lanagrafe, giovanissimi, e ovviamente magnifici, lo gridano i sessantamila di tutte le età, che affollano San Siro in un divampare dentusiasmo. Rieccoli, le facce rugose e il cuore in alto, tori imbattibili nellarena del tempo. Avvizziti epperò incandescenti: «Tornerò con membra di ferro e locchio furioso», annunciava Rimbaud, poeta assai caro agli amanti del rock. Lui, però, a diciottanni gettò via la penna, «amputandosi della poesia», dirà poi Mallarmée. Loro no: sessantanni passati, e manco ci pensano ad amputarsi del rock. Guardateli, Mick Jagger e Keith Richards. Mentre il concerto decolla su un tappeto focoso di chitarre, irrompe feroce il ritmo di Jumping Jack flash e le facce, le loro, sono un labirinto di solchi: «sorella morfina cugina cocaina» hanno lasciato tracce incolmabili e «le loro sataniche maestà», invocate a suo tempo tra il serio e il faceto, hanno mutato quei volti in mappa dellinferno.
Tutte cose che scavano, e fiaccano. E invece che lena, che furore di gioia, che energia dolorosa in quei corpi di ferro. Richards e Ron Wood sprigionano riff prevedibili, la classicità del resto non chiede aggiornamenti, è sempre nuova. Charlie Watts, dietro i tamburi, è fermo, misurato e come chiuso in se stesso: ma sgrana bordate, preciso come un metronomo, implacabile come mitraglia. E Jagger? Percorre chilometri col suo passo elastico, da ballerino classico. E spara note e parole al suo modo convulso, lo stesso da quarantanni e mai unincertezza, una sosta.
Grande teatro, tra laltro. Teatro senza un rallentamento, uninflessione amorfa, uno scarto del ritmo. E epico, se mai ve ne fu: specchio di unepoca e di tante epoche, ecografia duna civiltà che è stata la loro, ma non ha smesso di essere, contestualmente, la nostra.
Ascoltate Satisfaction: smascherò le frustrazioni duna generazione, erano gli anni Sessanta. Ma quelle frustrazioni non sono dissimili dalle frustrazioni di oggi, se una platea di giovani le conferma con cori da trionfo. E lultimo album, A bigger bang: con la rampogna a certi politici doggi e alle loro guerre, mica a quelle di ieri. Proprio questalbum offre al concerto, con Oh no, not you again, uno dei suoi momenti più elettrizzanti. Tra il flusso lavico dei classici rollingstoniani, quelli che ci portiamo nel cuore, e delle pagine più recenti, ma già nel nostro cuore. Ecco Bitch, eppoi Lets spend the night together, Streets of love, a mostrarci il volto più corrusco e quello più intimista della band. Incastonando entrambi nella solita cornice scenografica: va bè, gigantistica, anche kitsch. Con i quattro soppalchi destinati ai fari e venti spettatori, scelti a sorteggio. E il maxischermo che erutta immagini, seduzioni e qualche ovvietà - megalopoli, scene spaziali, simboli rubati a Dalì e scene dai mondiali di calcio - più la passerella che apre, biblicamente, il mare di folla, secondo una liturgia collaudata. E le canzoni, collaudate anchesse, ma nuove, sempre: può permetterselo, chi ha nel carniere pagine come Midnight rambler, Honky tonk woman, Start me up. E Its only rocknroll, e un omaggio a Ray Charles, e Con le mie lacrime, arcaico hit sanremese, riesumato in italiano. Grandissimi, insomma: sarcastici, ludici, dionisiaci. Rigorosamente oltranzisti, dopo il passabile prologo dei Feeder, nel raccontare leuforia come langoscia. Mick passionale e spiritoso («Richards e Materazzi hanno in comune problemi di testa», motteggia), Keith con i suoi ritmi urticanti, Ron raffinato, Charlie perentorio.
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