Storia di Jimmy Johnson, il testimone di colore a cui nessuno crede

Il giovane afroamericano Jimmy Johnson ha la sventura di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e di assistere a quella che ha tutta l’aria di essere una vera e propria esecuzione. Jimmy fa l’inserviente notturno in una tavola calda di Harlem e, quando si rende conto che l’autore del duplice omicidio che si è appena consumato davanti ai suoi occhi è un poliziotto bianco, corrotto, razzista e pericolosamente dedito all’alcol, teme di aver le ore contate. Nonostante Harlem sia il suo mondo, un universo difficile e spietato in cui i neri hanno un margine di manovra superiore a quello di molte altre località americane, il tentativo di Jimmy di mettersi in salvo da quel poliziotto spietato e fuori di testa deve fare i conti con un ambiente diffidente e chiuso. Corri, uomo, corri (Meridiano Zero, traduzione di Luca Conti, pagg. 224, euro 14. Nella foto la copertina) di Chester Himes, il serrato racconto di un uomo in fuga in un mondo sempre più indifferente, viene finalmente riproposto in Italia. Finalmente, perché i lettori hanno avuto poco tempo per approfittare della sua prima edizione, messa in circolazione da una casa editrice in seguito assorbita da un gruppo editoriale maggiore. Ma Chester Himes è uno di quegli autori che altri autori leggono e consigliano, uno di quei romanzieri che molti scrittori prendono a modello stilistico. La sua maestria nel creare la cornice ideale per una storia di violenza fisica e di abbattimento morale ne fa un precursore. Penna cinica e di un pessimismo più nero della sua stessa pelle, Himes fa di una trama noir individuale il ritratto di una comunità afroamericana pavida, non ancora infervorata dai primi venti di quella lotta progressista per i diritti civili che avrebbe infiammato una lunga stagione americana. Jimmy Johnson è il perfetto esempio del nero americano medio che, per un gioco crudele del destino e non per scelta, non può fare a meno di gridare al mondo le sue ragioni. Non è solo la polizia a non credergli, non è solo un universo di bianchi a irriderlo e nemmeno la comunità profondamente afroamericana di Harlem a diffidare di lui, ma è persino la sua fidanzata a dubitare della sua sanità mentale, di fronte all’enormità delle accuse da lui mosse. «L’aveva raccontato a un sacco di gente... Alla sua ragazza; al procuratore distrettuale; a questo o a quell’agente... all’avvocato... E nessuno gli aveva creduto. Eppure, era certo che gli sarebbe bastato abbordare il primo nero che passava di lì... per suscitare in lui quel senso di fiducia che nessun altro gli aveva dimostrato».

Un’illusione che nemmeno un finale agrodolce, tutto da scoprire, riesce a sgombrare. Questa è una storia in cui la violenza, più sottintesa che descritta, la fa da padrona, una storia che una generazione intera di pensatori vicini al Blackpower deve aver consumato avidamente.

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