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«La storia siamo noi» Così Lippi impartisce la lezione di mondiale

La storia siamo noi. Senza il permesso di Francesco De Gregori, diritti d’autore garantiti, Marcello Lippi inaugura il suo secondo mondiale consecutivo con una lezione di patriottismo calcistico che si trasforma in una seduta di training autogeno. «Cento anni di storia del calcio e noi ne rappresentiamo una bella fetta. Fa nulla se il mondo non ci dà mai per favoriti: noi siamo l’Italia» è il riassunto del suo predicozzo pronunciato ieri mattina alla Borghesiana, periferia di Roma. Davanti a lui, radunati per 40 minuti, i 29 azzurri componenti del gruppone da cui devono sortire i 23 da far salire sull’aereo per il Sudafrica tra i quali i veterani di Duisburg che hanno avvertito lo stato di forma del Ct («è molto carico» il giudizio dei suoi più stretti collaboratori) e qualche debuttante, stregato dal clima suggestivo della convocazione pre-mondiale, tipo Leonardo Bonucci, provenienza Bari, la classica provincia, «vuol rifare come nel 2006».
La storia siamo noi. Più che ripeterlo in pubblico, Lippi lo ha fatto in privato dinanzi al suo plotone azzurro perché nel calcio come nella vita, le motivazioni aggiunte all’autostima possono compiere miracoli, tipo Berlino. «Ho detto loro: dobbiamo essere convinti delle nostre qualità. Ho ricordato che non siamo secondi a nessuno anche se il mondo non ci vede favoriti. Tutti, da sempre, dicono Brasile. Hanno vinto 5 titoli e noi 4 e se negli Usa i rigori fossero andati al contrario...» nel riassunto delle puntate precedenti il Ct ha provato a toccare tutte le corde pur di rimettere in piedi la sicurezza e la convinzione di una Nazionale che sembra destinata a un «bagno» clamoroso, dopo l’esito deludente della Conderation Cup di un anno prima. «La Spagna ha un calcio bellissimo e non ha mai vinto, l’Inghilterra è la tradizione e ne ha vinto uno solo. Il segreto si chiama competitività» la sua conclusione ricavata dalla storia nazionale, «siamo un paese che nelle occasioni che contano sa ritrovare le sue doti migliori».
La storia siamo noi e non sempre, nel calcio, si ripete. Allora, 4 anni fa, la partenza fu in un clima inquisitorio: sotto accusa il Ct, considerato sodale di Moggi, il capitano Cannavaro e Buffon esponenti della Juve finita nella bufera di calciopoli. «Rose e fiori rispetto ad oggi» chiosa il Ct che pure è reduce dalla serata all’Olimpico e dai veleni di Lazio-Inter, «è successo quel che era lecito attendersi e anche il non lecito» il suo commento asciutto ma definitivo. Nessun paragone per il clima, allora. Ma neanche di altro genere, come sottolinea Gigi Riva che è lo storico accompagnatore della Nazionale, al suo posto dall’88, al fianco di Azeglio Vicini nell’europeo di Germania. «Stiamo anche meglio rispetto al 2006» e forse il riferimento è al girone di qualificazione o forse alla fioritura di qualche giovane talento, aggiunto ai suoi «tedeschi», tipo Bonucci ma anche Cossu che pure ha 28 anni. «È il primo cagliaritano che viene in Nazionale, sarebbe un premio per lui, se lo merita è un ragazzo splendido e quest’anno è stato un leader nella sua squadra» il diploma d’onore firmato da Gigi Riva.
Con questa ossessione in testa, è quasi naturale il comportamento di Lippi. Zero concessioni alla mancata presenza di Amauri, zero spiegazione sull’assenza di altri potenziali pretendenti, o all’abbandono di Giuseppe Rossi, rimasto invischiato in una involuzione tecnica e fisica. Solo per Totti c’è l’eccezione che conferma la regola della casa. «Saprete fra una settimana» è la promessa che vuol dire molto semplicemente un progetto ben definito. Totti è una carta di riserva, ora gioca da centravanti, e nella lista ce ne sono tanti, troppi, Borriello, Gilardino, Pazzini: bisogna lasciarne a casa qualcuno. Il capitano romanista non può essere considerato tre-quartista: in quel ruolo ballano Pirlo o Cossu.


La storia siamo noi, d’accordo ma nel frattempo è ancora una nebulosa il futuro della panchina azzurra, argomento al quale Lippi si sottrae con perfida determinazione. «Abete sa già tutto» ammette. D’accordo. Ma Abete sa anche che la successione non è così semplice se Della Valle non lo aiuta nella trattativa con Prandelli.

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