Lo strabismo mafiologico è un’epidemia

Caro Granzotto, una domanda: ma se la potenza di fuoco dei giustizialisti, dei manettari, dei trombettieri delle procure, dei professionisti dell’antimafia e dei Saviano non andasse tutta sprecata? Se il diavolo non fosse così brutto come lo si dipinge?
Roma

Non so se ho ben capito cosa intende dire, caro Goffredi. Ma è evidente che lei il diavolo non lo conosce. Sappia comunque che la sua farina, la farina del diavolo intendo, finisce tutta in crusca. Anche l’antimafia pelosa dei professionisti ebbe e forse un domani potrebbe ancora avere una sua dignità, ma non oggi. Oggi l’antimafia, così come la difesa ad oltranza di certe procure, è appesantita e inquinata dalla forte caratura antigovernativa. Si spara a Sandokan, il capo dei casalesi, per colpire il potere, attualmente rappresentato da Silvio Berlusconi. Ché se fosse rappresentato, mettiamo, da Nichi Vendola sarebbe tutta un’altra musica, tutta un’altra «narrazione». Come lei ben sa, subito dopo la collusione mafiogena, il peccato mortale più mortale del potere (bisognerebbe dire dello Stato, ma fa lo stesso) è lo scendere a patti, trattare, confrontarsi&dialogare con le cosche. Il solo sospetto che ciò possa avvenire e i professionisti dell’antimafia, i giustizialisti e i manettari d’ogni ordine e grado si fanno prendere dalle convulsioni. Ma sorbiscono il the coi biscottini, belli paciosi, ora che sanno e sappiamo che ciò accadde, nel non così lontano anno del Signore 1993. Primo ministro era allora Giuliano Amato, il «dottor sottile» (ma ebbe parte anche il suo successore, il chiaro Carlo Azeglio Ciampi). Presidente della Repubblica era Oscar Luigi Scalfaro, quello che non ci sta. Ministro della Giustizia era Giovanni Conso. A quanto si legge in un documento governativo, reso di pubblico dominio dopo diciassette anni di «sonno», la task force sopra indicata revocò il 41 bis, il carcere duro, a 140 mafiosi detenuti nel carcere palermitano dell’Ucciardone. E quella della revoca, sissignori, era una delle richieste avanzate da Cosa Nostra allo Stato.
Ora lei capisce bene, caro Goffredi, che se a firmare il «tana liberi tutti» fosse stato Angelino Alfano, se il presidente del Consiglio si fosse chiamato Silvio Berlusconi, quel documento, numero di protocollo 115077, avrebbe fatto da detonatore a una ondata di fiera e indignata protesta, con cortei per le vie, Annizeri in edizione straordinaria, metà del Parlamento sui tetti di Roma, la Procura di Milano in lutto stretto, Di Pietro uscito pazzo e un solo urlo a prorompere dai petti delle coscienze critiche della nazione: Berlusconi (finalmente) in galera. E in quella occasione gli uccelli del malaugurio ci sarebbero riusciti. Magari proprio in galera no, ma a dar becchime ai piccioni da una panchina del parco, questo sicuramente sì. Invece, come abbiamo visto, niente. Niente di niente. Neanche una tiratina d’orecchi.

Sempre in tema di strabismo mafiologico, cosa dire, poi, del silenzio calato sulle dichiarazioni del generale Mario Mori? Il quale accusò la Procura di Palermo di aver mosso guerra ai Carabinieri che mettevano il naso dove non avrebbero dovuto, di aver boicottato le indagini di Falcone e Borsellino, di aver favorito o comunque chiuso un occhio sui famosi pizzini che Massimo Ciancimino falsificò al computer, senza parlare di altre «deviazioni»? Sarà mica determinato, il silenzio della stampa e della televisione «impegnata nel civile», dal fatto che la Procura in questione sia quella di Palermo, luce degli occhi dei professionisti dell’antimafia? Si dia una risposta, caro Goffredi, e poi vedrà che le passa non solo il buonumore, ma anche la tentazione di vedere il diavolo meno brutto di quanto con le sue stesse mani si dipinge.
Paolo Granzotto

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