A guardare l’ultimo conflitto caucasico come una partita a carte, Mosca avrebbe in mano una bella scala reale; gli Stati Uniti e l’Unione europea un full e la Georgia nient’altro che una debole coppia. Fuori metafora: la Russia vince e porta a casa il piatto. Snobba pure gli «avversari». A ribadire la posizione di forza del Cremlino ci ha pensato ieri il presidente russo in persona, incontrando i due colleghi de facto di Abkhazia e Ossezia del Sud. Dimitri Medvedev fa il suo dovere e tira diritto nella direzione tracciata in realtà dal premier Vladimir Putin. Il vero protagonista di questa crisi. La guerra d’estate ha scongelato definitivamente un dossier che Mosca studiava da molte stagioni.
A Sergey Bagapsh ed Eduard Kokoity il leader del Cremlino ha garantito appoggio su «qualsiasi decisione che verrà presa dai popoli dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia». «Punteremo all’indipendenza in stretta conformità con le regole del diritto internazionale», ha detto il leader sud-osseto Kokoiti. I due popoli - separati da Tbilisi praticamente dall’inizio degli anni 90 - si sono già espressi in vari referendum per la loro indipendenza. La Russia sarebbe quindi pronta a riconoscere le due Repubbliche, ad appoggiarle in sede internazionale e a garantire sul campo il rispetto del loro status.
I due leader secessionisti hanno anche firmato la road map in sei punti concordata da Medvedev con il presidente francese Nicolas Sarkozy in qualità di capo di turno dell’Ue. La Georgia di quei commi ne aveva accettati solo cinque, rifiutando di sottoscrivere quello che prevedeva un dibattito internazionale sul futuro status abkhazo e sudosseto. Immediate le reazioni dell’Unione europea e degli Usa: «L’integrità territoriale della Georgia è fuori discussione». Ma Mosca non si scomoda neppure per un bluff. Risponde picche anche al segretario generale Onu Ban Ki-Moon, che ha insistito sullo stesso tema. Le carte migliori sono tutte nel suo mazzo e ricorda che per lei l’impegno vincolante sono «i sei punti». Che guarda caso non fanno cenno, neppure implicito, al rispetto dell’integrità territoriale. Più dell’Ossezia meridionale, che di fatto è già russa al 90 per cento, al Cremlino interessa l’Abkhazia, punto strategico per il transito energetico e sbocco sul Mar Nero che i russi vorrebbero usare per basarvi parte della flotta sotto (possibile) sfratto in Crimea nel 2017.
Per ora, però, quelle di Medvedev sono solo dichiarazioni d’intento. Lo spiega al Giornale Victor Yasmann, reporter russo dell’indipendente Radio Free Europe. «A Mosca non conviene riconoscere formalmente l’indipendenza delle due repubbliche georgiane, né annetterle alla Federazione. Entrambe le opzioni innescherebbero o un effetto domino sugli altri indipendentismi che ha in seno, o un’escalation nel confronto con la comunità internazionale, che porterebbe all’isolamento. La Russia ha sempre preferito uno stallo che le consenta di mantenere una posizione di influenza e ricatto nei confronti della Georgia, alleato degli Stati Uniti e snodo fondamentale per il passaggio dei flussi energetici tra Mar Caspio e Turchia».
Allora sembra quasi una guerra psicologica quella portata avanti a colpi di parole minacciose e falsi allarmi di carri armati su Tbilisi.
Gli Stati Uniti, per bocca del segretario alla Difesa Robert Gates, assicurano che non vogliono usare la forza per risolvere la crisi. Washington non aveva scelta. Non poteva bluffare. E la Russia lo sapeva già.
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