Streep, meravigliosa carogna in un mondo di griffes e look

Stenio Solinas

nostro inviato a Venezia

La direttrice-imperatrice, altera e spietata e l’art director-omosessuale, devoto e sarcastico, le assistenti sempre in carriera e sempre a dieta e gli stilisti emergenti in attesa della consacrazione, le copy di beauty e gli hair-stilist, i contributors e le top, il look e il total look, il back stage, il cool, l’in, l’out, il Fashion, il Fashion System, le Fashion Victimes... Sbarca fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia Il Diavolo veste Prada e la tribù metropolitana dei cinefili si ritrova faccia a faccia con la tribù modaiola. I componenti della prima discetterebbero per ore su un fotogramma di Antonioni, un piano-sequenza di Godard, quelli della seconda su un capo di Balenciaga, un accessorio di Manolo Blanhik. Per gli uni e per gli altri il giornalismo non è una professione, ma una religione di cui sono al tempo stesso officianti e fedeli, ovvero clero e gregge. Autoreferenziali, fuori dal loro mondo per loro il mondo semplicemente non esiste. Chiedergli anche di saper scrivere sarebbe un’inutile e gratuita cattiveria. Gli basta la fede. David Frankel, il regista del film, è anche quello di Sex and The City, la serie televisiva che alle giornaliste di moda dal sedere basso piace tanto perché le fa identificare con chi sullo schermo il sedere ce l’ha alto, ma è infelice allo stesso modo: problemi sentimentali, problemi sul lavoro, solitudine, invidie piccole e grandi. In Il Diavolo veste Prada il meccanismo è lo stesso, un rutilante mondo dell’immagine falso quel tanto che basta per renderlo glamour, una favola in cui il brutto anatroccolo diventa cigno, ma siccome ha cervello e senso morale non si lascia irretire dalle sirene della carriera fine a se stessa e senza scrupoli.
Date queste premesse, il resto viene di conseguenza: c’è una cattiva che è sì una carogna, ma essendo donna è in fondo meno carogna del maschio suo omologo, una piccola schiera di giovani sfigati ma creativi, il fidanzato dell’anatroccolo che fa il cuoco, e siccome ha talento andrà nel più celebre ristorante di Boston, l’amica dell’anatroccolo che fa la fotografa, ma è anche la sua coscienza critica, un susseguirsi di toilettes, mises, marchi, griffes, una New York frenetica, ma sempre con il sole, una Parigi notturna e sempre illuminata per uno sfondo molto trendy e molto comme il faut, cammei di Valentino, Heidi Klum e Bridget Hall che fanno se stessi, Meryl Streep che è un po’ Crudelia della Carica dei 101, un po’ la Regina cattiva di Biancaneve, un po’ Anne Wintour direttrice di Vogue America, Carla Sozzani direttrice di Vogue Italia, Krizia, Miuccia Prada...
Il risultato non è sgradevole, molto patinato, molto leccato, molto pubblicitario, uno spottone che vale quell’ora e mezzo di pura evasione. Meryl Streep fa naturalmente la parte del leone, e il suo tono di voce, basso ma gelido, è destinato a fare scuola nel mondo reale del giornalismo di moda, Anne Hataway è graziosa al punto giusto e anche qualcosina di più, Stanley Tucci fa il braccio destro, gay e discreto, della temutissima direttrice senza strafare. Gli attori migliori, comunque, sono gli abiti.
Tratto da un mediocre romanzo di successo, per la tribù della moda è anche l’occasione per prendersi la rivincita sulla categoria delle top model su cui finiscono sempre i riflettori e la gloria di un lavoro lungo, oscuro e faticoso. Qui sono le assistenti, le segretarie, le redattrici, a essere in primo piano, e siccome siamo al cinema fisicamente non hanno nulla a che vedere con la realtà che rappresentano.
Stando al press-book che accompagna il film, naturalmente Il Diavolo veste Prada ha una morale, che non è solo quella scontata del titolo, la seduzione del male o giù di lì. Solo che è una morale duplice, perché se ti accontenti di dire che il lavoro non vale la vita, tanto valeva allora non girare nemmeno una pellicola del genere, e quindi devi anche dire che una vita vissuta nel lavoro ha comunque una sua grandezza, tragica magari, ma ricca di insegnamenti.

Così Miranda, la direttrice-despota di Runaway è anche una che vuole il massimo perché dà il massimo, insegue la perfezione, è un esempio a non mollare, a essere i migliori. Così i film accontenta i seguaci del diavolo, ma anche quelli dell’acqua santa...

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